Rischia la pena di morte il sergente americano responsabile della strage di Kandahar in cui sono morti 17 afgani, tra cui donne e bambini, nella notte tra sabato e domenica. E’ stato il segretario alla Difesa americano Leon Panetta a spiegare che il sottufficiale sarà processato davanti ad una corte marziale secondo il codice di giustizia militare americano che prevede tra le possibili sanzioni anche la pena capitale. Ma le dichiarazioni di Panetta e le scuse di Obama non hanno ovviamente frenato le reazioni della piazza né l’ovvia presa di posizione dei talebani, pronti a sfruttare, servita su un piatto dorato, l’ennesima ottima occasione.
La guerriglia ha infatti minacciato di decapitare soldati americani per vendicare la strage di Kandahar: «Ancora una volta l’Emirato islamico – ha fatto sapere con un comunicato Zabihullah Mujahid, nome col quale i talebani rivendicano le azioni – mette in guardia gli animali americani. I mujaheddin si vendicheranno, e con l’aiuto di Allah uccideranno e decapiteranno i soldati sadici e assassini».
Ma la reazione popolare non sembra aver bisogno dell’aiuto dei talebani anche se l’area dove il fatto è avvenuto – la provincia meridionale di Kandahar – è ad alta intensità guerrigliera: la delegazione inviata dal governo di Kabul per indagare sul massacro di civili è stata infatti attaccata mentre si trovava vicino al luogo della strage, come ha riferito il portavoce del ministero dell’Interno Sediq Sediqqi, precisando che almeno un poliziotto è rimasto ferito. Due fratelli del presidente Hamid Karzai si trovavano nella delegazione giunta da Kabul e sono stati presi a fucilate.
Ma se nell’area di Kandahar è facile che la reazione sia da imputare ai talebani o ai loro sodali, di segno diverso è stata la manifestazione di alcune centinaia di studenti che hanno manifestato oggi contro gli Stati Uniti a Jalalabad, principale centro dell’Est dell’Afghanistan sul confine col Pakistan. Si tratta della prima protesta per la strage di domenica che avviene fuori dalla provincia di Kandahar e che prelude, molto probabilmente, a un seguito in altre città.
Intanto la vicenda ha dato il via a ipotesi, commenti e reazioni che hanno rimesso il dossier afgano sui tavoli delle cancellerie occidentali. E per un’Angela Merkel che, in visita alle truppe nel Paese asiatico, dice che il ritiro deve essere graduale e forse slittare oltre il 2014, gli americani sarebbero invece intenzionati ad accelerarlo. Così almeno scrive oggi il New York Times, secondo cui l’Amministrazione potrebbe accelerare l’uscita dei suoi soldati aggiungendo, nel 2013, altri ventimila soldati ai diecimila già rimpatriati e agli altri 20mila già previsti in uscita entro il 2012. I ventimila ulteriori potrebbero lasciare il Paese tra dicembre 2012 e giugno 2013 riducendo il contingente, che era l’anno scorso di circa 100mila soldati, a meno di 50mila uomini.
In Italia invece di ritiro non si parla. Al momento l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ministro della Difesa del governo Monti, si è limitato ad evocare una piccola riduzione entro l’anno del contingente, che è stata non ufficialmente quantificata in circa 200 soldati dei circa 4200 presenti in Afghanistan.
Il desiderio di allontanarsi il più possibile dall’Afghanistan cresce invece nelle opinioni pubbliche: più di tre quarti dei britannici ritiene che la guerra in Afghanistan non possa essere vinta e il 55% pensa che le truppe di Sua Maestà vadano immediatamente ritirate. Lo riferisce un sondaggio dell’istituto ComRes, pubblicato mentre il primo ministro David Cameron è atteso a Washington per incontrare Obama con cui, tra l’altro, parlerà anche di Afghanistan. Un conflitto sempre più impopolare anche negli Usa anche se i due leader hanno scritto oggi per il Washington Post un articolo a quattro mani in cui si dicono «orgogliosi dei progressi fatti dalle nostre truppe per smantellare al Qaeda».
di Emanuele Giordana