Ottomila morti. E’ questo il bilancio di un anno di repressione da parte del governo siriano secondo i dati citati da Nassir Abulaziz al-Nasser, presidente dell’Assemblea generale dell’Onu. «Le violazioni dei diritti umani sono sistematiche e diffuse – ha detto oggi al Nasser – E in questo la comunità internazionale ha la sua responsabilità». E mentre continua a salire il numero delle vittime a Damasco, Assad ha annunciato le elezioni per il prossimo 7 maggio.
Le parole di al-Nasser arrivano mentre nel Consiglio di sicurezza i paesi occidentali e quelli arabi rinnovano gli sforzi per superare i veti russo e cinese e arrivare a una risoluzione di condanna contro il regime. Al Consiglio ha riferito l’esito della sua missione a Damasco l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, oggi inviato speciale per la Siria, di passaggio in Turchia per incontrare i vertici del governo di Ankara: «So che c’è un grande sostegno da parte della comunità internazionale e sono fiducioso sulla possibilità di trovare una via d’uscita. Mi aspetto oggi risposte dal governo siriano alle proposte che ho lasciato sul tavolo – ha detto Annan dopo il colloquio con il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan – Quando avremo quelle risposte sapremo come reagire». All’incontro hanno partecipato anche esponenti del Consiglio nazionale siriano (Cns), il principale gruppo dell’opposizione anti-regime. Secondo Burhan Ghalioun, portavoce del Cns, nell’incontro non si è parlato di armare l’opposizione. Il Cns e il Free Syria Army, ha aggiunto Ghalioun «sono pronti a smettere di combattere se cessa la repressione, i prigionieri vengono liberati e l’esercito viene richiamato nelle caserme».
L’unica risposta però arrivata per il momento da Damasco sono ancora i carri armati. Dopo l’orrore del massacro di civili – soprattutto donne e bambini – a Homs (massacro per cui il governo siriano nega ogni responsabilità), l’attenzione dell’esercito si è spostata verso nord, a Idlib, vicino al confine con la Turchia, dove da almeno tre giorni ci sono combattimenti. L’esercito sta usando di nuovo l’artiglieria pesante per tenere sotto il fuoco la città, dove c’è una forte presenza dei combattenti del Free Syria Army. Secondo le testimonianze che rimbalzano sui media internazionali, Idlib è sotto assedio, com’è successo a Homs per quasi un mese prima dell’ingresso in città delle forze regolari dell’esercito e soprattutto degli shabiha (milizie irregolari filogovernative) a cui sono state attribuite le peggiori atrocità, incluso il massacro scoperto ieri. A Idlib sono già almeno 25 le persone uccise dall’artiglieria. E intanto, nel nord est del paese, a Qamishli, migliaia di persone hanno manifestato per ricordare l’anniversario di una rivolta che otto anni fa oppose la locale comunità kurda alle forze di sicurezza del regime. Anche questa manifestazione è stata repressa nel sangue: la polizia ha sparato sulla folla e almeno tre persone sono rimaste uccise.
La preoccupazione del regime sembra essere quella di isolare l’intero Paese, per evitare che profughi scappino in Turchia e in Libano (al momento i paesi più facilmente raggiungibili dalle zone dove infuria la repressione). Secondo l’Ong internazionale Human Rights Watch, il governo sta piazzando mine antipersona lungo le strade e i passi usati proprio dai rifugiati per scappare oltre confine. In un rapporto diffuso oggi, Hrw sostiene che ci sono già state delle vittime civili e che l’esercito sta minando sistematicamente i confini siriani. Le informazioni sono basate tu testimonianze raccolte sia tra i profughi sia tra gli sminatori siriani. Le mine antipersona sono vietate dal 1997, dopo una campagna internazionale che ha portato all’adozione di un Trattato ratificato da 159 paesi, tra i quali, comunque, non c’è la Siria (assieme a Israele, Birmania e alla Libia di Gheddafi). Per quanto Damasco non abbia impianti di produzione per mine antipersona, si ritiene che nei suoi arsenali che ne siano diverse migliaia, probabilmente soprattutto di produzione sovietica. L’esercito le ha usate nella guerra “di prossimità” contro Israele in Libano nel 1982. Secondo le informazioni raccolte da Hrw, i soldati di Damasco hanno steso diversi campi minati a pochi metri dalla frontiera con la Turchia per cercare di fermare la fuga di rifugiati nei campi allestiti dalla Mezza luna rossa turca fin dall’inizio delle proteste, un anno fa. Sul confine libanese, invece, le mine sono state messe “solo” a partire da novembre del 2011, quando le proteste erano scoppiate nella zona di Tel Kalakh. Proprio in questa cittadina, un ragazzo di quindici anni ha perso una gamba dopo essere saltato su una mina mentre cercava di passare il confine con in Libano lungo una strada fino a quel momento considerata sicura.
Le mine lungo il confine turco, inoltre, servirebbero anche a rallentare un eventuale ingresso di truppe turche, le più “attrezzate”, logisticamente e quanto ad equipaggiamento, se si dovesse decidere di aprire corridoi umanitari per consentire l’arrivo di convogli di soccorso nelle zone più colpite dalla repressione.
Il clima di tensione non si placa, ma Bashar al-Assad ha fissato al 7 maggio la data delle prossime elezioni legislative, dopo averle rimandate più di una volta. A riferirlo è il sito del Parlamento siriano, che pubblica il decreto emesso dal presidente. La nuova costituzione siriana, approvata con referendum popolare il 26 febbraio scorso e boicottata dall’opposizione, indicava la necessità di indire elezioni parlamentari entro 90 giorni dalla sua entrata in vigore. Le legislative avrebbero dovuto svolgersi ad agosto dello scorso anno, ma sono state rimandate a causa della crisi scoppiata in Siria un anno fa, anche se le autorità di Damasco hanno giustificato il posticipo con l’attesa del varo della legge elettorale e di quella sui partiti, che avrebbe dato a nuove forze politiche la possibilità di presentarsi al voto.
di Joseph Zarlingo