Dalla Svizzera meno soldi all’Italia e i comuni di confine tremano. La proposta avanzata dal Canton Ticino di ridurre il ristorno delle imposte prelevate sugli stipendi del 50mila lavoratori frontalieri italiani in Svizzera, ha convinto anche il Consiglio nazionale, la camera bassa del parlamento elvetico, che ieri ha detto sì alla rinegoziazione degli accordi con l’Italia, riducendo sensibilmente l’aliquota, che passerebbe dal 38,8% al 12,5%.

In virtù di un patto firmato negli anni Settanta, ogni anno la Svizzera versa infatti alle casse italiane una parte delle imposte che preleva dai salari dei lavoratori frontalieri. Quelli che vivendo nelle zone di confine si recano ogni giorno a lavorare in Svizzera, attirati da stipendi decisamente più alti di quelli nostrani. La quota di tasse che ogni anno parte alla volta dell’Italia oggi ammonta al 38,8%, una percentuale che viene ritenuta eccessiva da alcuni partiti della destra, come Udc e Lega dei Ticinesi, che da anni si battono contro il fenomeno del frontalierato. Oggi le ragioni di questi partiti trovano un ampio sostegno popolare, riscontrato anche nei recenti successi elettorali. Le posizioni protezionistiche stanno conquistando anche altre fette di consenso, tanto che sono sempre di più quelli che chiedono di valutare i recenti cambiamenti della realtà socioeconomica delle regioni di frontiera e ridefinire la natura del versamento compensativo, adattandolo alle circostanze attuali, spingendo per aprire un tavolo di trattativa con l’Italia per un nuovo accordo di doppia imposizione.

Il Consiglio Nazionale ha approvato anche la mozione presentata dalla Commissione degli stati, che va nella stessa direzione di quella presentata dal Canton Ticino: “L’Italia è ostile al libero scambio, ostile alla libera concorrenza, e negoziare coi guanti bianchi non porterà ad alcun risultato – ha detto il liberale Fulvio Pelli, relatore della commissione invitando a sostenere la rivendicazione del Ticino -. Il Canton Ticino la sa lunga in materia di rapporti con l’Italia. Dategli una volta retta, invece di mandare a Roma svizzero tedeschi che non sanno l’Italiano e trattano in inglese”.

La prospettiva di un taglio dei ristorni aumenta lo stato di agitazione dei sindaci di confine, già in allarme per la situazione che si è venuta a creare da qualche tempo a questa parte. Irritati da scudo fiscale e black list, i leghisti del Canton Ticino avevano già provveduto al blocco del 50% dei ristorni, come arma di pressione nei confronti dell’Italia, per costringere il Governo ad aprire una trattativa ampia, capace di ridefinire i rapporti fiscali tra i due paesi. Una trattativa che non è mai partita, né con il governo Berlusconi né con il governo Monti che, anzi, ha escluso a più riprese di negoziare con la Svizzera per un accordo sulla fiscalità.

I sindaci dei comuni di confine vivono questo momento con grande apprensione. Gran parte dei loro bilanci dipende infatti dal trasferimento dei ristorni che Berna versa a Roma. I conti del 2012 sono già a rischio in virtù del dimezzamento dei ristorni operato lo scorso anno, ma la prospettiva della riduzione ad un terzo di questi trasferimenti significherebbe la fine per molte piccole amministrazioni comunali, che non sarebbero più in grado di garantire i servizi ai propri cittadini.

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