Ci risiamo. Non appena è iniziata a circolare la notizia delle trattative per il passaggio della Ducati nelle mani della tedesca Audi del gruppo Volkswagen (che contrariamente alla Fiat riesce a fare utili record nonostante la crisi dell’auto), ecco che è ripartita la grancassa della difesa dell’italianità.
La rossa di Borgo Panigale, però, ha da tempo immemore perso l’italianità in termini di azionariato. Benché l’acquisizione della casa motociclistica da parte di Andrea Bonomi e soci, avvenuta tra il 2006 e il 2008, fosse stata salutata con le trombe del ritorno al tricolore dopo l’infelice parentesi americana, infatti, nell’operazione c’era ben poco di italiano. A partire non tanto dall’accento british di Bonomi, quanto dal suo fondo Investindustrial, capofila dell’operazione, all’epoca controllato dal Jersey e oggi dal Lussemburgo. Al suo fianco, poi, con quote di minoranza, c’erano anche i fondi pensione dell’Ontario. La stessa Ducati, inoltre, attualmente è controllata da una società italiana che a sua volta fa capo a una controllante olandese, i cui titoli sono in pegno a una holding lussemburghese.
Di italianissimo c’è invece il pegno sui titoli dell’azienda bolognese delle due ruote, che fin dal 2008 sono stati dati in garanzia a Intesa San Paolo, a fronte di un prestito da oltre 240 milioni di euro stipulato all’epoca del perfezionamento del passaggio di mano. La banca milanese, fino a pochi mesi fa guidata dall’attuale ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera, peraltro grande estimatore della Ducati, ha in garanzia anche il pegno sui marchi del gruppo motociclistico che ha recentemente condiviso con la Bei e la Popolare di Vicenza, nonché un privilegio sui cespiti della casa bolognese.
Gli impegni scadranno tra il 2015 e il 2017 e hanno portato Ducati da una situazione debitoria, che nel 2008 era pari a zero, con una posizione finanziaria netta positiva per circa 40 milioni di euro, a un debito consolidato vicino a 200 milioni. Per carità, niente di insostenibile rispetto ai parametri complessivi della società, che è vincolata dalle banche al rigido rispetto dei numeri, ma comunque un impegno da considerare, che negli anni ha comportato anche rigorose e articolate ristrutturazioni aziendali. Come il piano concordato a gennaio del 2010 (21 lavoratori in mobilità), mentre il totale delle fuoriuscite di personale tra il 2009 e il 2010 è stato di 32 dipendenti. In tutto questo i risultati economici, benché positivi a dispetto della crisi e delle dimensioni modeste dell’azienda che è tornata a generare utili nel 2007, non sono certo quelli che gli investitori finanziari si aspettavano.
Numeri alla mano, Ducati ha chiuso il 2010 con ricavi per 392 milioni di euro praticamente in linea col 2007 e un margine operativo lordo di 111 milioni. Le stime iniziali di Bonomi e soci per lo stesso anno parlavano invece di un fatturato di 548, 6 milioni e un margine di 210, 8, mentre gli utili sono scesi dai 13, 5 milioni del 2007 agli 8, 1 del 2010. Quanto basta, cioè, per versare ai soci un dividendo di 5, 3 milioni. Certo non sono briciole e la società è comunque rimasta dignitosamente in pista, ma in pratica il successo maggiore è stato sul fronte del debito che a fine 2010 era di una trentina di milioni inferiore alle attese. Del resto, si sa, gli impegni con le banche vanno rispettati. E un investitore finanziario è un investitore finanziario che può arrivare solo fino a un certo punto, come ha recentemente ammesso lo stesso Bonomi parlando della necessità per la storica casa italiana di un “partner industriale di rilevanza mondiale”.
Il Fatto Quotidiano, giovedì 15 marzo 2012