E’ una domanda che negli anni ho sentito centinaia di volte. L’ho sentita rivolgere a giovani danzatori e ai pochi, coraggiosi, operatori del settore.
L’ho pronunciata anch’io. Agli altri e a me stessa. Proverò a rispondere.
Iniziando da una confessione: le volte che mi sono davvero emozionata nel vedere uno spettacolo di danza (o di teatro) rispetto alle volte che mi è successo guardando un film (fiumi di lacrime e batticuori a non finire davanti alla magia del grande schermo), sono davvero poche. Ma quelle rare volte che succede, che uno spettacolo dal vivo arrivi a toccarti profondamente è un’esperienza unica. Proprio perché è dal vivo. Proprio perché tu sei lì e gli attori o i danzatori anche. Perché è sempre “buona la prima”, la scena non si può rigirare e chi è sul palcoscenico lo sa. Ma perché la danza e non il teatro? che la danza in Italia non se la fila nessuno, la danza contemporanea poi…
Perché appartengo a quella scuola di pensiero che fa fatica a distinguere tra le due cose, sarà che mi sono formata in quegli anni dove a teatro la parola cedeva il posto all’immagine, gli anni della Gaia Scienza di Barberio Corsetti e di Falso Movimento di Mario Martone. E poi il folgorante incontro con lei, la madre del teatro danza, l’immensa Pina Bausch (a proposito se ancora non avete visto “Pina” di Wenders fatelo immediatamente), che con Cafe Muller aveva fugato ogni dubbio.
E quindi danza sia. Perché la danza, anche quando parte da un testo è fatta di immagini. E con le immagini arriva dove le parole non riescono ad arrivare. Perché la danza mette al centro di tutto il corpo. E con il corpo trasmette tutto. E il corpo è qualcosa che riguarda tutti. Tutti ci facciamo i conti. Lo amiamo il nostro corpo. Lo odiamo. Ne vorremmo un altro. Ci disperiamo quando non funziona come dovrebbe. Desideriamo il corpo altrui. Si dice che la danza sia un linguaggio universale. Io credo che sia il corpo che ne è il centro ad essere universale. Per questo alla fine ho resistito alle sirene (meravigliose) del cinema ed ho scelto la danza. Quella contemporanea. Quella che non si fa scrupolo di usare corpi differenti, giovani, vecchi, alti, bassi, grassi e magri. Quella che parla ai nostri corpi attraverso i corpi dei danzatori.
Ma allora se la danza tutta e la danza contemporanea in particolare è così potente, così vicina ai nostri sensi perché sembra essere così distante dai gusti della maggioranza dei fruitori di spettacoli? Perché viene considerata un’arte di nicchia? Perché le istituzioni la finanziano poco e i teatri la programmano malvolentieri?
Nei momenti di delirio complottista che spesso mi attanagliano mi racconto che il vero motivo per cui in questo paese la danza contemporanea non riesce a radicarsi nell’immaginario collettivo è che in un paese cattolico come il nostro (non solo un paese cattolico, ma un paese che ospita lo Stato Vaticano) questa centralità del corpo sia inammissibile. E’ al limite accettabile la danza classica, che astrae i corpi in forme sempre bellissime e aggraziate (delle grandi interpreti del classico si loda la leggerezza, quella capacità di mostrare un corpo quasi senza peso o la perfezione del movimento suggellata da un sorriso che nega lo sforzo fisico necessario a realizzare quella perfezione). Ma il corpo ha un peso. E i movimenti del corpo non sono sempre perfetti. Il corpo è fatto di carne e sangue. E la fatica esiste. Sicuramente c’è anche un desiderio di bellezza, il bisogno di essere rassicurati da tanta perfezione. L’illusione di volerci raccontare che il nostro corpo è e sarà sempre così, che non ci ammaleremo, che non invecchieremo.
C’è lo specchio di una società (ma allora è lo Stato a voler controllare, non la Chiesa…il complotto si allarga!) che negli ultimi vent’anni ha fatto dell’immagine finta ed edulcorata del corpo, in particolare di quello femminile, ma non solo, il proprio baluardo. Ma non basta. C’è altro, di più profondo, più antico. Il tentativo di mortificare il corpo agitando lo spettro del peccato (tentativo che peraltro il cattolicesimo condivide con moltissime altre religioni) e quella volontà di controllo che cerca di esercitare sui nostri corpi con regole e divieti.
Perché in fin dei conti se la parola è censurabile, il corpo non lo è. Dice sempre tutto. Non si possono troncare arti come si tagliano pezzi di testo. E, sempre nel mio delirio da complotto, mi dico che, Stato o Chiesa che sia a voler controllare il nostro corpo, l’unico modo per restare liberi è continuare a danzare.
“Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti” (P. Bausch)