Shadi Karam è un attivista siriano di 25 anni che da Beirut continua a fare il suo lavoro in attesa di rientrare a Damasco: “La nostra rivoluzione finita nel sangue, ma noi crediamo ancora nella non violenza”
Come è nata l’idea della protesta e perché avete scelto un mercoledì invece che il tradizionale giorno di preghiera?
Volevamo sfruttare l’effetto sorpresa per evitare l’ingente dispiegamento delle forze dell’ordine che il regime predisponeva ogni venerdì in previsione di quello che poi sarebbe accaduto. Era inevitabile. Abbiamo iniziato a discuterne già a fine di gennaio. Ciò che stava accadendo in Egitto e in Libia ci aveva dato la forza di opporci a 40 anni di sottomissione. Il venerdì successivo, il 18 marzo, c’è stata invece la manifestazione più grande, partecipata da un migliaio di persone.
Era da molto che aspettavate quel momento, come vi siete organizzati?
Personalmente da tutta la vita. Vengo da una famiglia tradizionalmente antiregime, mio padre è stato comunista, ora è un indipendente. I miei amici, di tutte le confessioni ed etnie, non aspettavano altro. Nel nostro gruppo siamo alawiti, curdi, sunniti, ismaeliti. Io sono druso. Abbiamo preso coraggio e con un semplice passaparola alle 13 in punto ci siamo trovati in pieno centro davanti alla moschea degli Omayadi al Suk Hamidie. Io ho portato in piazza 63 persone tra amici, parenti e colleghi universitari poi si sono uniti gli altri. Era la prima volta pronunciavamo uno slogan libero.
In Siria, al contrario di Tunisia, Egitto e Iran, non c’è stata una contestazione a carattere studentesco. Cosa c’è dietro la totale passività dell’Università di Damasco?
Un apparato militare che può mobilitare in pochi minuti 10mila uomini armati posizionati in una caserma vicino all’ateneo. Abbiamo tentato l’occupazione il 25 marzo scorso. Per poco non ci ammazzavano tutti.
Di cosa scrivevi prima delle rivolte?
Temi sociali. La vita in sé quando non viene rispettato il diritto di cittadinanza diventa una cosa complicata che si districa tra l’arte di arrangiarsi e l’autocensura nella richiesta di un futuro migliore. Se sei povero pensi solo a sopravvivere. Se sei ricco a mantenere il tuo benessere. Le differenza non la fa l’etnia o la religione ma i soldi.
La maggioranza dei poveri però sono sunniti.
Solo perché rappresentano il 70 per cento della popolazione del Paese. È una questione di proporzioni. Se vai nei paesini intorno a Latakia puoi vedere alawiti poverissimi, a Sweda, il mio villaggio nel Sud, ci sono i drusi nullatenenti. Vogliamo parlare della borghesia sunnita di Aleppo e Damasco che sostiene Assad per mantenere i suoi interessi? La verità è che la guerra confessionale è l’ultima carta che si può giocare il regime prima di cadere. Nel mio paese non c’è una guerra civile in corso, ma un regolamento dei conti.
Dopo la caduta del regime, non temi l’avanzata l’islamismo politico?
Abbiamo due tipi di islam in Siria quello dei partiti come i Fratelli musulmani, i cui rappresentanti si trovano principalmente all’estero, e quello conservatore della classe dirigente sunnita. Da laico dico che non ho paura dei partiti islamici perché non abbiamo una elite wahhabita come in Arabia Saudita né un clero tradizionale come in Egitto che ospita l’istituzione religiosa di Al Azhar.
E i fondamentalisti salafiti?
È dalla fine di aprile scorso che provano a chiamare al jihad senza nessun risultato. In Siria la gente muore per difendere il proprio territorio, non si ammazza in nome di Dio. E poi sono in contatto costante con molti religiosi, sheikh, che pensano più a proteggere le vite della gente che a distruggerle.
A Beirut partecipi alle manifestazioni anti Assad?
Sì, ce ne sarà una il 17 marzo, ma non vado a quelle organizzate dai salafiti libanesi.
Perché hai lasciato Damasco?
Mi sono laureato da diversi mesi e non posso più sottrarmi al servizio militare obbligatorio. Iniziarlo in questo momento significherebbe scegliere se sparare insieme all’esercito regolare o a quello libero dei disertori. In entrambi casi imbracciare le armi e uccidere. Non credo che la soluzione si possa trovare in questo modo. La spirale di violenza ci porterà solo ad allungare il numero di vittime da un lato e dall’altro prima di sederci a un tavolo e trovare una soluzione per ricostruire il paese.
di Susan Dabbous