Non trova pace Placido Rizzotto, il sindacalista ucciso a Corleone il 10 marzo 1948, neppure dopo l’identificazione del suo corpo. Non sono bastati depistaggi e silenzi che hanno ritardato di 64 anni l’accertamento della verità: ora che anche l’esame del Dna dimostra essere suoi i miseri resti trovati nella foiba di rocca Busambra, è la legge a sbarrare il cammino della giustizia. Lo Stato non riconosce infatti come vittima di mafia chi è stato ucciso prima del gennaio 1961, anche se i fatti e la storia dimostrano il contrario.
“Il riconoscimento non ci interessa per gli eventuali benefici di legge concessi ai parenti delle vittime, che tra l’altro sarebbero ben poca cosa, ma per il suo valore simbolico e morale. Sarebbe un atto di giustizia per Rizzotto ma anche per le decine di sindacalisti uccisi come lui dalla mafia”. Il nipote del sindacalista di Corleone porta lo stesso nome del nonno e parla con la soddisfazione di chi ha vinto una battaglia ma non ancora la guerra. “Nel paese tutti sapevano chi era Rizzotto e chi lo ha ucciso – spiega – ma adesso che sono stati individuati con una certa sicurezza gli esecutori materiali dell’assassinio vogliamo capire quale è stata la vera matrice dell’omicidio. E perché ci sono stati anni di depistaggi”. Il nuovo Placido non accetta che la giustizia abbia una scadenza. “Non importa che i protagonisti della vicenda siano tutti morti, la verità deve fare il suo cammino. Chi ha assolto gli assassini allora – continua il nipote – ha la responsabilità di aver concesso ad un Luciano Liggio agli albori di trasformarsi nel boss che è poi diventato. Chi lo ha assolto gli ha tolto di mano la pistola per porgergli un kalashnikov”.
Il paradosso della legge non colpisce però solo Rizzotto, ma più di 150 nomi, compresi i morti di Portella della Ginestra. Per lo Stato italiano neppure loro sono vittime di mafia. “Esiste un progetto di modifica della legge sottoscritto da diversi parlamentari – spiega l’avvocato Enza Rando – ma giace da circa un anno in Commissione affari costituzionali. Il limite temporale fissato al 1961 non è solo paradossale ma anticostituzionale, perché crea vittime di serie A e vittime di serie B”. Per l’avvocato Rando, che è responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Libera e assiste numerose parti civili nei processi di mafia, la modifica non è altro che il riconoscimento di un diritto: “A lungo si è lavorato per eliminare le differenze che la legge prevede tra vittime del terrorismo e di mafia, ma molto resta ancora da fare”.
Per questo motivo, perché molto resta da fare, più di 500 familiari di vittime di mafia si riuniranno oggi a Genova, in occasione della diciassettesima Giornata della memoria e dell’impegno organizzata da Libera e Avviso pubblico (qui il programma della manifestazione, che continuerà domani). Per chiedere a gran voce il riconoscimento di diritti troppo a lungo disconosciuti, di cui la modifica della legge “sbarramento” non è che un esempio. C’è un gran fermento. “Trovarci insieme e per noi molto importante – spiega Stefania Grasso, punto di riferimento dei familiari all’interno di Libera – perché spesso viviamo la solitudine. Nel dolore e nella difficoltà di ottenere giustizia per la sorte dei nostri cari. Abbiamo spesso la sensazione di combattere una battaglia impari, noi da una parte e i colpevoli dall’altra, loro il più delle volte salvati da indagini che si arenano o non portano a condanna, noi abbandonati al nostro destino”. I familiari chiedono di essere maggiormente tutelati dalla legge, di ricevere notizie sulle indagini, di eliminare il segreto di Stato su fatti altrimenti destinato all’oblio, di ottenere maggiore sostegno anche dal punto di vista psicologico, perché per loro sia meno difficile metabolizzare la propria storia e trasformarla in energia positiva per se stessi e il Paese. “Perché l’impegno è la migliore cura – conclude Stefania, mentre corre a prendere l’aereo che la porterà dalla Calabria in Liguria – quando il dolore ha origine da un male di per sé insanabile”.