Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.
La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.
I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.
E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.
La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.
Don Peppe Diana 25 dicembre 1991
Che civiltà che sanguina dietro quattro colpi sparati dentro ad una chiesa. Esistono echi che non si riescono a scrivere nemmeno sbriciolando il dizionario delle parole peggiori. Quattro rintocchi di pistola alle 7.30 del 19 marzo 1994 sono un tamburo muto. Quattro buchi sparsi tra la faccia, la mano e la testa di un uomo che ha deciso fiero di non seguire ma attraversare la strada.
Ci sono paesi coltivati in giro per il mondo che rimangono appesi con la strada principale. Non importa che sia Emilia di nome o Domiziana, non importa nemmeno che sia a forma di strada o battuta con i sassi delle strade lisce come sassi. Ci sono paesi in giro per il mondo che rimangono ammuffiti per anni con una strada che vale per tutti, come se cominciasse ogni porta fuori dalla porta che è così per forza, così perché è sempre stato. Che è così e basta. Perché la strada non è solo una via buona per lo struscio, perché la strada è un modo, e il modo appena si abitua diventa stile, e appena lo stile marcisce diventa sistema. Il sistema. Ci sono paesi che la storia si dimentica nelle note a fondo pagina, condannati a non illudersi finché non succede che qualcuno per troppo amore quella strada non si mette ad attraversarla.
Raccontano gli angeli della memoria che Don Peppe Diana, quel giorno che si è messo in testa di raccontare a tutti come ci fosse un’altra via, dicono gli angeli che avesse la tranquillità e la luce degli esploratori. Mentre invitava con un mezzo sorriso appoggiato sulla bocca che sarebbe bastato girare all’angolo della paura per la via della dignità.
Caro Don Peppe,
forse te l’eri anche immaginata questa sera tutta appiccicata del tuo ennesimo anniversario che profuma di vita. Perché io ti confesso che non ci avrei scommesso un soldo di provare e non riuscire nemmeno a raccontarti di sfioro qui a casa tua mentre mi si chiude la gola. Perché non riesco a spiegarmi questa agonia di giusti che possono essere raccontati solo dopo la pistola. Perché mi ci vorrebbe, questa sera, un cuore a forma di Don Peppino per non urlarmi che dovresti tanto esserci tu a slavare questa erba e mezzi muri dalla puzza e il disonore dei suoi padroni e della vergogna che l’ha concimata fino a ieri. Caro Don Peppe, chissà se non ti scapperebbe un brivido lungo e sottile ad annusare che profumo ha la tua Casale con il vestito della dignità.
Caro Don Peppe,
il re infame che ti ha fatto cercare nel corridoio di spari è inciampato in uno spigolo di gente che ha scelto di stare accampata sulla tua strada. Dovresti vederli, Don Peppe, che padroni in mutande sono i boss mentre cercano di tappare le bocche che ricominciano da dove ti avevano fermato.
Caro Don Peppe,
chissà se ci avevano mai pensato loro, i professionisti comici e molli della prepotenza e della paura, i pagliacci del ricatto, con i vestiti coordinati dai polsini eleganti, le scarpe lucide e le macchine potenti, mentre sfilano mimando male la potenza lasciando una scia di puzzo mischiato tra rifiuti, il sudore dei nascosti e l’odore della merda. Chissà se ci avranno mai pensato, Schiavone o Bidognetti, che sono passati anni e continuano a rimbalzare quei quattro spari. Quattro rintocchi che bisogna custodirli stretti perché a guardarli oggi un po’ più dall’alto hanno la forma di carezze che continuano a cantare. Chissà se non vi rimbalzano, a voi mandanti ed assassini, gli spari, l’eco e gli angoli di quella chiesa, se non vi rimbalzano in testa come una condanna a ritmo per il resto della vita. Quei quattro spari che vi sono tornati in faccia con la potenza della semplicità che Don Diana coltivava.
Caro Don Peppe,
io queste parole avrei voluto dirtele all’orecchio, in questo desiderio infantile e finalmente sano di chiederti di esserci comunque. Avrei voluto almeno vederti in faccia per come hai curvato gli occhi quando ti è arrivata la notizia fin lì che il tuo compleanno si festeggia nella casa restituita di Sandokan. Perché ci dovranno restituire tutto, Don Peppe, e noi senza mai farci passare questa fame.
Dovranno restituirci i muri, le terre, gli uomini e la dignità; finchè non gli verrà rificcata in gola la paura. Dovranno restituirci la bellezza che hanno scambiato per quattro monete al mercato dell’intimidazione. Dovranno restituirci la libertà di alzare gli occhi, di sorridere, di credere e camminare. Dovranno restituirci questi anni in cattività che passiamo per proteggerci. Ci dovranno restituire il respiro incondizionato. Ci dovranno restituire i paesi quelli veri: con l’incrocio di strade da scegliere, costruire, osservare e attraversare.
Caro Don Peppe,
quei quattro spari, te lo giuro, sono diventati aghi: un inno a non avere paura e un mazzo di punte sulla schiena di chi c’era e chi è rimasto: Schiavone, Bidognetti, Iovine o Zagaria. Mi piacerebbe chiederlo a loro come pungono sull’unto della schiena, mi piacerebbe chiederlo a loro se lo sentono il rumore del loro onore che davanti a quattro spari anno dopo anno si sgretola.
Caro Don Peppe,
non ci avresti sperato che la tua morte potesse profumare di vita così tanto, così forte e così a lungo in un paese che finalmente sta imparando a ricordare.
Caro Don Peppe,
chissà come ti suonerà strano un accento così diverso per un ricordo che arriva come una lettera lunga mille chilometri. Di una vergogna lunga come una nazione che ci è venuta a prendere per zittirci e invece ha perso mentre ci ha portato ad abbracciare. Chissà se non trovi anche tu che in questo mare di mafie che si arrampica su una nazione alla fine ci ritroviamo come navi attraccati nei porti che non avremmo mai creduto di visitare.
Che civiltà che sanguina dietro quattro colpi sparati dentro ad una chiesa. Esistono echi che non si riescono a scrivere nemmeno sbriciolando il dizionario delle parole peggiori. Quattro rintocchi di pistola alle 7.30 del 19 marzo 1994 sono un tamburo muto. Quattro buchi sparsi tra la faccia, la mano e la testa di un uomo che ha deciso fiero di non seguire ma attraversare la strada. Un paese normale dovrebbe registrarli quei quattro spari per tenerseli in tasca a sanguinare. Una pistola per zittire è l’arma dei codardi, è un gioco da conigli, un trucco per maghi dilettanti.
Cara camorra,
ti sparerà la memoria. Ogni giorno, tutto il giorno. La memoria che si è accesa in quella sacrestia dove vi siete mangiati la carità.
Caro Don Peppe,
io per amore del mio popolo non tacerò. Continuerò a raccontare questa storia da raccontare. Continuerò a essere partigiano nella scelta della parte dove stare. Io non ci sto, anche con te ammazzato e con la scorta. Io mi vergogno di questa gente che non si vergogna, io mi vergogno di dovermi difendere per avere invocato un contrattacco con le armi bianche e la parola. Io mi vergogno di andare in tourné con un pubblico che mi spia. Io mi vergogno di doverti conoscere solo troppo tardi. Io mi vergogno delle orecchie e gli occhi che latitano, leggono e ascoltano di Michele Zagaria forse da Casapesenna. Io mi vergogno di questa paura incivile di fare i nomi. Noi sappiamo, abbiamo le prove, conosciamo i nomi. Questa sera avrei dovuto scrivere, parlare, raccontare. Su questa sedia seduta sotto la finestra della tua Casale, avrei voluto scrivere un abbraccio, trovare le parole. Ma questo nodo in gola non mi si riesce a musicare, questa aria gialla che mi prende in giro fino a venirmi ad annusare. Forse ci sono ricordi che non andrebbero nemmeno parlati, che sono pieni e leggeri come un velo sul cuore. Questa sera recito da muto da un giardino liberato dalla prostituzione. Vorrei un monologo stasera che non facesse nemmeno rumore. Vorrei dirtelo di persona, perché seduto, di fianco, sono sicuro che la vedi, questa sera, questa casa di letame e morte che, per un secondo, ti dedica un inchino.
(scritto per la chiusura del Festival dell’Impegno Civile a Casal di Principe, 2009 dal libro “Nomi cognomi e infami“)