La chiamano “Legge Biagi”, ma la definizione è vera soltanto a metà. Perché la legge 30 di riforma del lavoro, approvata durante il governo Berlusconi nel 2003, ha messo in pratica soltanto una parte delle del famoso “Libro bianco” di Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse a Bologna il 19 marzo di dieci anni fa. E la metà mancante è quella degli ammortizzatori sociali – tema tornato in discussione in questi giorni con la riforma Fornero – che il giuslavorista reputava necessari anche per controbilanciare la crescente precarietà del lavoro. Primi fra tutti, l‘estensione del sussidio di disoccupazione e le politiche attive in favore dei disoccupati in cerca di impiego.
All’avvicinarsi del decimo anniversario dell’assassinio, numerosi colleghi di Biagi hanno voluto rimarcare l’utilizzo improprio – o quanto meno parziale – del nome del professore rispetto alla legge che ha istituzionalizzato forme di precariato, come il contratto a progetto, il lavoro interinale (o in affitto), il lavoro intermittente. Con buona pace di Roberto Maroni, all’epoca ministro del Welfare, che qualche giorno fa ha dichiarato: “La vera riforma del lavoro l’ho fatta io, nel 2002-2003 con la legge Biagi. Qui mi sembra che ci sia aria fritta, non vedo grandi novità all’orizzonte”.
La pensa diversamente, per esempio, Tiziano Treu, senatore del Pd e vicepresidente della Commissione lavoro a Palazzo Madama: “Gli ammortizzatori sociali e le politiche attive per favorire i disoccupati in cerca di un impiego erano una parte importante del lavoro di Biagi, che la legge 30 ha trascurato”, afferma Treu. Il senatore difende la figura di Biagi anche rispetto alle nuove forme di precarietà introdotte: “Servivano a contrastare il lavoro nero, ma in questi ultimi dieci anni sono esplose forme di lavoro parasubordinato che nulla hanno a che fare con quelle previste da Biagi. Mi riferisco alla flessibilità cattiva delle partite Iva utilizzate all’interno delle aziende, gli stage che diventano sostituzione di lavoro, le forme improprie di collaborazione. Sono state le imprese a evadere la legge 30 per ridurre i costi”.
Secondo il senatore del Pd, che a sua volta battezzò la riforma del lavoro del 1997, “la riforma in discussione oggi renderà questi abusi più difficili e introdurrà la parte dimenticata del Libro bianco, gli ammortizzatori sociali e le politiche attive. Nel primo caso, però, il problema è dove trovare le risorse. Nel secondo, riorganizzare e razionalizzare i servizi per l’impiego che già esistono”.
Sussidio di disoccupazione e politiche attive “erano una parte fondamentale del lavoro di Biagi, ma nella legge 30 sono rimasti sulla carta, a parte il potenziamento della Cassa integrazione”, conferma Carlo Dell’Aringa, uno degli estensori del Libro Bianco (di cui era cofirmatario, con Biagi, il futuro ministro Maurizio Sacconi), economista dell’Università Cattolica. Di lui si è parlato con insistenza come possibile ministro del Lavoro nel governo Monti, incarico poi affidato a Elsa Fornero. “I requisiti per ottenere il sussidio oggi sono troppo stringenti, su cento disoccupati ne possono beneficiare non più di trenta. In altri paesi è previsto un reddito minimo di cittadinanza di 3-400 euro per chi non ha più un lavoro”. Il progetto di Marco Biagi contemplava appunto un aumento del sussidio, continua Dell’Aringa, in “un sistema di welfare condizionato, cioè rivolto a chi fa tutto il possibile per uscire velocemente dalla condizione di disoccupato”.
Ma per farlo occorrono le “politiche attive”, cioè servizi specifici che aiutino a trovare un nuovo impiego. Su quest’ultimo fronte, secondo l’economista, la riforma in discussione non porterà novità sostanziali. E i sussidi più alti “saranno finanziati da un aumento del cuneo fiscale, ciè la differenza tra quanto il datore di lavoro spende e quanto il dipendente incassa davvero”.
Il welfare imamginato da Biagi per le generazioni precarie rientra in gioco dieci anni dopo l’omicidio di Bologna, per il quale sono stati condannati definitivamente all’ergastolo Nadia Desdemone Lioce e altri quattro brigatisti. Ma la riforma proposta dal governo Monti non affronta la “bomba previdenziale”, per dirla con Walter Passerini, giornalista e autore, insieme al collega Ignazio Marino, del libro “Senza pensioni” (Chiarelettere 2011). “Resta innescata la bomba previdenziale che, dopo l’introduzione del sistema contributivo, vedrà tanti giovani restare vittime della scarsa continuità del lavoro”, afferma Passerini. Giovani destinati a diventare “i nuovi poveri, perché percepiranno una pensione che sarà solo una piccola parte del reddito da lavoro”. E qui si arriva al nocciolo del problema che nessuna riforma tocca: “In Italia i salari sono troppo bassi, lo dicono tutti i confronti internazionali”. Non si scappa: bassi salari significa bassi i contributi, dunque basse pensioni. “Il prossimo tavolo”, conclude Passerini, “dovrà essere aperto su questo”.