“Se nelle ultime settimane non avessimo fatto pressioni non sarebbero mai scesi in piazza con noi”. A sentire Filomena, cassintegrata iscritta alla Uilm, dietro all’unità sindacale ritrovata oggi a Napoli ci sarebbero le pressioni degli operai più che la volontà dei loro rappresentanti. Fosse stato per loro, dicono, questa mattina sarebbero volentieri rimasti a casa. E tuttavia, fa un certo effetto vedere sfilare segretari e responsabili di Cisl, Uilm, Ugl e Fismic accanto a quelli della Fiom alla testa del corteo organizzato dai lavoratori della ex Ergom, oggi Plastic Components-Magneti Marelli di Napoli.
Fino a qualche tempo fa, i firmatari dell’accordo di Pomigliano erano sicuri che con Fabbrica Italia e la nuova Panda le cose sarebbero andate per il meglio, e che tutti i 970 lavoratori che negli ultimi anni hanno costruito i pezzi di plastica dell’Alfa 147 e della 159, della Lancia Ypsilon e del Ducato avrebbero trovato occupazione. Eppure, dopo quattro anni di cassa integrazione, anche le loro certezze sembrano cominciare a vacillare. Non per tutti, però. C’è pure chi è in piazza a protestare con immutata fiducia nei confronti di Fiat. Come Vincenzo Aveta, responsabile del settore indotto auto della Fim-Cisl di Napoli. “A Pomigliano, una fabbrica di fatto chiusa, la Fiat ha fatto investimenti non indifferenti, garantendo la produzione di una nuova auto e le prime riassunzioni. Oggi, quindi, restiamo fiduciosi, anche se vogliamo fare pressione per accelerare sugli accordi industriali presi”. “Chiederemo – aggiunge Luigi Mercogliano della Fismic – che dopo il sindaco De Magistris e la Regione Campania anche il prefetto si attivi in prima persona perché venga garantita una prospettiva a tutti i lavoratori della ex Ergom”.
Un impegno che arriva nel primo pomeriggio, quando al termine dell’incontro in prefettura viene dato l’annuncio di un tavolo con Fiat, Regione Campania, Comune di Napoli e sindacati per discutere del futuro occupazionale dei lavoratori che non saranno assunti in Fabbrica Italia Pomigliano. E c’è il rischio che siano tanti, di certo più di quanti annunciato nei mesi scorsi. Ad oggi, al lavoro sono tornati solo 204 operai, cui entro pochi giorni dovrebbero aggiungersene altri 20. Non più impiegati alla Magneti Marelli, ma direttamente nello stabilimento di Pomigliano. Secondo gli accordi, quando la produzione della nuova Panda andrà a regime, ad essere assunti in Fip dovrebbero essere in tutto 550. Ma a sentire chi in quella fabbrica ci ha lavorato per anni, per le mille auto al giorno previste con l’introduzione del terzo turno basteranno meno di 400 operai. “Per gli altri – dice Crescenzo Auriemma, segretario responsabile Uilm di Pomigliano – l’azienda si è impegnata a garantire un futuro occupazionale nella ricambistica o nell’indotto di primo livello. Ad oggi, però, l’indotto è fermo e sui ricambi non c’è ancora niente di certo”.
Così a Napoli, nella fabbrica di via De Roberto, sono rimasti solo una cinquantina di operai, chiamati due o tre giorni a settimana per produrre i pezzi di ricambio del Ducato. Ne avranno, se tutto va bene, fino a giugno. “Ma chi è dentro – denuncia Giuseppe Ghirardi, assunto nel 1980 e fuori dai capannoni dallo scorso ottobre – dice che l’azienda, sotto il ricatto del lavoro, chiede di velocizzare la produzione: chi accetta viene chiamato, chi si rifiuta resta a casa. Se fosse vero, quel poco di lavoro rimasto potrebbe finire già a maggio”. Da allora, di certo c’è solo la scadenza della cassa integrazione straordinaria: 9 luglio 2013. “Prima di quella data dobbiamo sapere quali sono le reali intenzioni della Fiat – dice Vincenzo Chianese, delegato Fiom – Finora non c’è nulla di ufficiale, nessun impegno scritto, solo promesse campate in aria. Compresa quella che vorrebbe che lo stabilimento di Napoli diventasse il centro della produzione di ricambi in plastica di Fiat. E come si fa? È impossibile spostare tutte le produzioni dagli altri stabilimenti qui. L’impressione è che con Pomigliano e tutto l’indotto, la Fiat stia attuando la stessa strategia utilizzata per Termini Imerese: togliere produzione poco alla volta, fino alla chiusura definitiva degli stabilimenti”. In quel caso a pagare sarebbero tutti gli operai. A prescindere dalla tessera sindacale.