Il lungo addio è finito. Trentasei anni dopo The Band, trentaquattro dopo Mina. Senza però Martin Scorsese a far da regista. Lunedì, allo Strehler di Milano. Ivano Fossati si è emancipato dalla sua iconografia, con cui ha sempre mal convissuto. Ritiro anticipato, a 60 anni: “Sono proprio felice”, ripeteva dopo le tre ore di concerto. La mediazione artistica lo ha raramente intaccato: l’ingenuo flower power dei Delirium, la sperimentazione del grande mare che avremmo traversato. L’esplosione prima come songwriter e poi come interprete. Il cantautorato più rarefatto e colto. Quindi, col nuovo millennio, l’ultimo disco davvero compiuto (Lampo viaggiatore) e tre opere contemplanti picchi e slavine, capitoli allegramente testamentari di una nuova rivoluzione: la semplicità, il rimando ai Beach Boys. Quasi a far media, senza rinnegarlo, col passato più cerebrale.
Quando il pubblico lo ha inchiodato con una standing ovation di quasi dieci minuti, dopo Il bacio sulla bocca, l’introverso (ma neanche poi tanto) Fossati ha avuto piena percezione del suo nuovo presente. L’affetto, da lui alimentato con una carriera quarantennale, gli è tornato addosso con la violenza tenera dei boomerang che conoscono a memoria la traiettoria perfetta. Ha provato a parlare, non c’è riuscito. Si è allora rifugiato nel corner teatrale di una canzone beneagurante (Buontempo) e quindi nell’aria di un vecchio brano (Dolce acqua). Attorno a lui, un commiato sereno: donne trafitte dalle sue storie d’amore (che finiscono male e per questo piacciono), uomini virilmente inteneriti dalla solennità di C’è tempo.
Il lungo addio fossatiano ha fatto scrivere molto: troppo mediatico. Fabio Fazio come gran cerimoniere, un disco da lanciare, un tour da supportare. E Aldo Grasso che ha ritenuto l’operazione troppo bella per non nascondere fini biecamente commerciali. Dubbi leciti, ma chi crede che Fossati ci ripensi, e torni a suonare come nulla fosse, non lo conosce. C’è sempre stata, in lui, la fascinazione per il cupio dissolvi. Di Lucio Battisti, del resto, ama il desiderio di fuga: l’ostinato smarcarsi dalla propria ombra contabile. Più dell’insuccesso, Fossati teme la reiterazione: di ruoli e stilemi. Non si è mai sentito soltanto musicista e adesso, anzitutto, osserverà il mondo. Da bravo viaggiatore d’Occidente, ormai sempre più francese (ha una casa a Nizza).
Dentro il concerto di lunedì c’era gran parte della sua parabola. Lo scricchiolio delle canzoni più leggere, come La decadenza, così irrisolta da far pensare che si sia deliberatamente divertito ad abbruttirsi. Il bassista, incredibilmente fuori contesto, che zappava sullo strumento neanche fosse un Gormita turnista in una cover band dei Led Zeppelin. La serenità di chi è innamorato, forse troppo per creare ancora capolavori. L’entusiasmo con cui incensa artisti che un tempo avrebbe forse crivellato, da Noemi a Mengoni (entrambi in platea), magari passando per la Laura Pausini di cui ha apprezzato la cover de La mia banda suona il rock (ma qui c’è il trucco: odiando quel successo, era semplicemente felice di risentirlo così devastato). Tutto vero.
Come lo sono altre considerazioni. Che il “peggior” Fossati era ancora molto meglio di quasi tutta la musica che gira intorno, soprattutto quando si ricongiungeva al piano (Settembre, Tutto questo futuro). Che è una brutale forma di egoismo, da parte dei fans, volerlo per forza perdurante e dolorante (affinché componga nuove La costruzione di un amore). Che nel periodo ‘86-96 ha fiammeggiato di genialità inusitata. Che in questo lungo addio, un po’ Chandler e un po’ Altman, c’è un’onestà intellettuale a cui l’Italia non è abituata.
Che la pianta del tè ha ben piccole foglie, l’orologio americano è falso e la stella benigna. Soprattutto: che Ivano Fossati mancherà a tanti. Ma non a se stesso.