Nella settimana della doppia sfida italiana contro le inglesi (il Milan contro l’Arsenal e il Napoli contro il Chelsea), sono stata a Londra. Un weekend inglese, girando solo in metropolitana. Ho ripercorso tratti conosciuti, e scoperto cose nuove. E le sole domande che mi venivano erano con continui paragoni con le nostre città, con l’Italia.
Per dire: sono andata a vedere il Fulham contro lo Swansea a Craven Cottage, uscendo dall’underground alla fermata Putney Bridge, e percorrendo il lungotamigi con i tifosi inglesi. La sensazione, ogni volta che faccio una cosa del genere, è sempre la stessa: pace, tranquillità, e voglia di far parte di loro, di prendere le loro usanze, le loro abitudini. Fuori dalla stadio, ho comprato il Programme, che mi dava diritto ad uno sconto di 20 sterline sulla maglietta ufficiale nello store vicino all’ingresso: ho preso pure quella. E non sono nemmeno tifosa.
Non c’è verso, il tifo inglese è coinvolgente, ti ingloba, ti fa sentire speciale, uno di loro, protetto. E’ cambiato, naturalmente, negli anni: adesso è al massimo della forma. La mia domanda è: quando anche noi avremo lo stesso tifo? Cosa ci impedisce di averlo? Una piacevole sorpresa me l’ha data la stampa inglese, che ha dedicato una pagina di un free-press importante alle fermate di tube londinesi in corrispondenza degli stadi: io ci ho fatto un libro, qualche tempo fa, proprio su questo (si chiama “Prossima fermata: Highbury”, e sono 22 racconti in corrispondenza delle 22 fermate di metropolitana che portano ad uno stadio di calcio (la prefazione è di Gianni Mura), sul mio blog c’è un link con i dettagli http://greisonanatomy.blogspot.it/) dicevo, leggere gli inglesi che parlano delle usanze inglesi, mi ha fatto capire che forse noi siamo ancora lontani anni luce dal saperci gestire, dal saperci guardare da fuori. E mi sono pure chiesta che tipo di mappatura di Roma o di Milano, dovremmo fare per descriverci.
Nello stesso giorno, a Londra c’era pure la partita di rugby dell’Inghilterra contro l’Irlanda: seguita in un pub, pure quella. Altro pianeta, rispetto al nostro calcio. E c’era pure la regata Head of the River, lungo il Tamigi. Altro fiume, rispetto al Tevere. Seguito le imbarcazioni, centinaia, con altrettanti spettatori: spettacolo bellissimo. Non c’erano campi rom o baracche a strapiombo sugli argini, come si vedono da noi. Poi, il Chelsea, che ha giocato la partita di Coppa contro il Leicester City: i tifosi partivano da casa con le sciarpe già dalla mattina, e cantavano coinvolgendo chiunque.
Pure Di Matteo dicono vada allo stadio con la metropolitana. Di Matteo, l’allenatore, va allo stadio in metro, capito bene: inutile nemmeno dire “da noi, chi lo fa?”. Ma su Di Matteo, ho letto però i commenti, le opinioni, i giudizi dei vari opinionisti inglesi. E ho trovato il loro punto debole. Mi chiedo: lo stanno capendo? Sanno chi è? Voglio dire: lui è uno che ha fatto la gavetta (da calciatore), e continua a farla (da allenatore); è uno che nessuno gli ha mai regalato niente, ma che si è sempre guadagnato tutto, faticando, e scalando le gerarchie con la sola bravura, e con la passione per questo sport. In Inghilterra ha condotto il Milton Keines Dons in terza serie, e poi ha preso il West Bronwich Albion, facendogli riguadagnare la promozione in Premier League con tre turni di anticipo col secondo posto nella classifica finale della Championship.
Lo scorso anno è stato fatto fuori dal presidente nella notte, e sulla stampa inglese già si era letta solo una riga. Ora si parla di lui sono come un traghettatore, uno che è subentrato all’esonero di Villas-Boas, e che dovrà cedere presto il posto ad un altro. Ma la squadra sta andando bene, e la sua impronta si è vista già dopo il primo giorno di allenamento in solitaria. Insomma, questo è un appello, un sostegno, una carezza di conforto per Di Matteo. Non si capisce perché la stampa inglese non lo faccia. Noi ci saremmo accorti di lui, questo possiamo dirlo. Ci risiamo: allora, è meglio l’Italia?