Con lungo ritardo il Consiglio delle Nazioni Unite è riuscito per la prima volta a prendere una posizione comune contro Assad, condivisa anche da Russia e Cina, che sostanzialmente ricalca il piano in sei punti dell'inviato speciale Kofi Annan. Ma le parole per il momento non fermano la repressione
Una dichiarazione, non una risoluzione vera e propria. Ma almeno sembra che il Consiglio di sicurezza dell’Onu abbia iniziato a superare l’impasse che dura da un anno; da quando cioè sono scoppiate le proteste di piazza contro il regime del presidente Bashar Assad. La dichiarazione, che non è giuridicamente vincolante, è stata comunque approvata con il consenso di tutti i 15 membri del Consiglio, comprese Cina e Russia, finora molto restie a condannare apertamente il governo siriano.
Il testo accoglie positivamente la nomina dell’ex segretario generale Kofi Annan quale inviato speciale per la Siria e invita il governo di Damasco a fornire ogni appoggio per il successo della sua difficile missione diplomatica, allo scopo di «giungere ad una fine immediata di tutte le violenze e le violazioni dei diritti umani, assicurare l’accesso umanitario e facilitare una transizione politica guidata dalla Siria».
Il piano di Annan prevede sei punti, riassunti nel testo della dichiarazione. Tra essi, assicurare tempestivamente l’accesso nel Paese degli aiuti umanitari; facilitare la transizione democratica attraverso la creazione di un sistema politico pluralista; accelerare la liberazione di tutte le persone detenute per motivi politici e in maniera arbitraria; assicurare la libertà di movimento attraverso il Paese per i giornalisti; rispettare la libertà di associazione e il diritto a manifestare pacificamente. Se il governo di Assad non rispetterà – ed è questo il punto politico forse più rilevante della dichiarazione di oggi – il Consiglio di sicurezza si dice pronto a considerare «ulteriori passi». E ulteriori passi non potrebbero che essere la risoluzione di condanna che finora è stata bloccata dal veto russo e cinese.
E da Giakarta, intanto, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon si è detto «estremamente preoccupato» per la situazione in Siria, che potrebbe avere ripercussioni «esplosive, per tutta la regione e il mondo». Ulteriore segnale del cambiamento di “aria” per il regime di Assad è la dichiarazione congiunta fatta da Pechino del ministro degli esteri cinese Yang Jiechi e del suo omologo egiziano Mohammed Amr, in visita nella capitale cinese. I due diplomatici hanno invitato «tutte le parti» in Siria ad abbandonare la violenza ma hanno sottolineato come si debba «rispettare la scelta del popolo siriano». Ancora più esplicite le parole del ministro degli esteri russo Serghei Lavrov che per la prima volta ha parlato di «molti gravi errori» del governo di Damasco nella gestione della crisi, a partire da quando «ha reagito erroneamente alle prime proteste pacifiche».
Nonostante tutti gli appelli, però, sul campo le cose non migliorano. I carri armati dell’esercito regolare oggi hanno bersagliato sia alcuni quartieri della già devastata Homs, sia alcune zone della periferia di Damasco, dove si sono concentrati i combattenti del Free Syria Army che nei giorni scorsi avevano fatto incursioni nel quartiere delle ambasciate. Secondo le opposizioni, ieri almeno 14 persone sono state uccise nei quartieri di Homs dove si sono rifugiati i cittadini scappati da Bab Amro, la zona distrutta in un mese di assedio tra l’inizio di febbraio e quello di marzo.
A Damasco, invece, secondo i gruppi dell’opposizione, ci sono stati violenti combattimenti nei quartieri di Harasta e Irbin, da dove le forze governative già due mesi fa avevano cercato di espellere i guerriglieri ribelli. Secondo le testimonianze che arrivano dalla zona, l’esercito sta usando anche elicotteri da combattimento per stanare i combattenti anti-regime. Anche in altre zone del paese si segnalano scontri, mentre continua a crescere il numero dei siriani che cercano rifugio in altri paesi. Ieri la Mezza luna rossa turca ha detto che sono ormai 16mila i siriani esuli oltre il confine turco. Secondo l’agenzia di stampa dell’Onu Irin sono già 80mila quelli che hanno lasciato il paese negli ultimi mesi. Molti di loro sono rifugiati in Giordania e in Libano, con pochissima o nessuna assistenza a parte quella che ricevono dalle popolazioni locali. La via con la Giordania, però, è stata chiusa nelle ultime settimane e molti, soprattutto dalle province centrali, cercano di entrare illegalmente. Alcune testimonianze citate dalla Irin parlano anche di attacchi contro le auto e i bus che portano i profughi. Il bilancio complessivo delle violenze degli ultimi due giorni, secondo Al Arabiya, è di almeno 55 morti.
Le opposizioni armate, tuttavia, hanno reagito duramente alla diffusione, ieri, di un rapporto di Human Rights Watch che accusa i ribelli di aver commesso torture e uccisioni sommarie. «Le violenze delle forze governative non possono giustificare questi atti», ha detto alle agenzie di stampa Sarah Leah Wilson, direttrice del desk Medio Oriente per l’Ong, a cui il Cns ha risposto affermando il proprio impegno per la difesa dei diritti umani. Un impegno su cui, però, si addensano ombre.
di Joseph Zarlingo