Non bisogna essere economisti di chiara fama per sapere che i grandi investitori stranieri sono più spaventati dalla criminalità organizzata e dalla burocrazia piuttosto che dalla possibilità di non poter licenziare, così come è noto che le aziende italiane hanno preferito spesso delocalizzare in Paesi dove non ci sono grandi diritti per i lavoratori solo per pagare di meno la manodopera e arricchirsi senza troppi vincoli; questo bengodi che vanno a cercare in nazioni ancora arretrate dal punto di vista del diritto, adesso lo vorrebbero ricreare anche in patria. E Monti sembra intenzionato a dar loro man forte.
Sull’articolo 18, dunque, il granitico Monti, quello che per il momento si è tolto il cappello solo davanti ai tassisti, che prende a calci i pensionati, ma è pronto a fare una vistosa marcia indietro per non scontentare i banchieri dell’Abi sul fronte delle commissioni, sembra deciso a non esitare davanti all’introduzione del licenziamento per motivi economici. Questo potrebbe metterlo, per la prima volta dall’insediamento, in reale difficoltà politica . Parlando prima con Napolitano e poi con Fini (che lo aveva bacchettato giorni fa per non aver informato il parlamento della mancanza di copertura su alcune norme contenute nelle liberalizzazioni) il professore è stato messo in guardia sulle conseguenze di un muro contro muro con i sindacati, ma lui è parso voler tirare dritto, anche se la via della mediazione attraverso una legge delega al governo sui licenziamenti facili (come suggerito da Bersani e da Bonanni) sarebbe apparsa migliore. Sembra, dunque, che Monti, infatuato all’idea di passare alla storia come colui che ha cambiato l’Italia, nel nome di un liberismo a vantaggio di pochi e a discapito di molti, non ricordi quanto è stata dura, negli ultimi dieci anni la lotta contro i reiterati tentativi del governo di centrodestra di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Che – vogliamo ricordarlo noi e ribadirlo – rappresenta un alto esempio di civiltà giuridica, non il contrario. Nel 2002 ci provò Berlusconi a scassare le tutele del mondo del lavoro, facendo scaturire uno scenario di tensione che culminò con l’assassinio di Marco Biagi, il 23 marzo del 2002. Si svolse anche la manifestazione della Cgil che con gli slogan ‘Per l’articolo 18’ e ‘Contro il terrorismo’ riempì il catino del Circo Massimo di Roma con oltre un milione di persone: iscritti alla Cgil, lavoratori provenienti da tutto il paese, ma anche studenti, cittadini, esponenti e militanti della sinistra (Ds, Rifondazione, Verdi), rappresentanti della Margherita, l’associazionismo, ‘girotondisti’ e no global. All’epoca regnava Sergio Cofferati in Cgil e dal palco disse parole molto chiare: “Se il governo non ascolta, allora il sindacato non ha paura di “rispondere con la lotta” ne’ ha paura di “ricorrere allo sciopero generale”. E, infatti, le bandiere di Corso Italia ripresero a sventolare con quelle di Cisl e Uil nel corso dello sciopero generale del 16 aprile, sempre del 2002.
Sono passati dieci anni ma lo scenario è lo stesso. Solo che c’è una crisi famelica che morde, i posti di lavoro si assottigliano sempre più e anzichè licenziare facilmente, ci sarebbe bisogno di velocizzare le assunzioni, alla base di una ripresa economica duratura. Se quello che vuole Monti, con gli industriali e i banchieri a fargli da corona, passerà in modo traumatico (con un decreto o con la fiducia messa l’ultimo minuto su un ddl) la piazza si scatenerà nuovamente. Ma stavolta sarà più dura da affrontare per il governo e per tutte le forze politiche, a partire dal Pd che su questa trattativa si sta giocando la sua esistenza in vita. Sarà senz’altro una lotta dura. Ma per una giusta causa. La causa del lavoro e della sua dignità.