Una cartolina dal pianeta inesplorato degli under 15. Avendo scritto con mia figlia Ludovica ventiduenne (dunque vecchiotta, ma non del tutto aliena per la platea) un librino sulla “Libertà” nella collana “Una parola raccontata a ragazze e ragazzi” di Manifestolibri, veniamo di tanto in tanto invitati a incontrare scolaresche interessate al tema.
A inizio anno ci trovavamo nell’istituto tecnico-professionale Firpo-Buonarroti di Genova a parlare con un centinaio di allievi molto partecipativi; accompagnati – come spesso accade – da professori pieni di entusiasmo. Nonostante Gelmini e compagnia. Visto l’interesse suscitato, concordammo di proseguire il confronto a mezzo questionario. I risultati emersi dalla pur rudimentale campagna d’ascolto sono interessanti; in parte scontati, in parte piuttosto stupefacenti. In primo luogo l’altissimo tasso di coinvolgimento: 80 per cento, a riprova che i giovanissimi hanno una gran voglia di esprimersi; e se questo non avviene, dipende dalle modalità sbagliate del contatto. Invece deludenti – come prevedibile – i segnali per quanto riguarda la politica.
Alla proposta di tre definizioni di libertà (come impegno individuale: “Essere uguali per poter diventare diversi”; come impegno sociale: “La libertà non è star sopra un albero”; come impegno pubblico: “chi non si interessa allo Stato lo consideriamo inutile”), ovviamente senza fornire chiavi esplicative, le risposte si ripartivano quasi equamente tra le prime due opzioni. Mentre la terza risultava totalmente ignorata. Eppure, se chiamati a indicare il proprio portabandiera di libertà (e la domanda era totalmente “aperta”, senza indicazioni prefissate) le scelte privilegiavano personaggi altamente “politici”. Nell’ordine: Gandhi, Luther King, Mandela e il Che. Pur scontando il fatto che le preferenze pescassero nel pantheon delle icone mediatiche globali, un dato apparentemente contraddittorio: ammirazione dell’impegno politico a fronte del proprio personale rifiuto.
La chiave poteva essere trovata combinando altri due quesiti: “Che cosa è più importante perché tu sia felice” e “Chi è il peggiore nemico della tua libertà”. Infatti una delle prime condizioni dello stare bene risultava “la vita in famiglia”; cui faceva seguito l’indicazione, da parte di un consistente numero di risposte, dei “propri genitori” come la più incombente minaccia alla propria realizzazione. Anche qui un’apparente contraddizione. Tirando le fila (e provando a generalizzare con prudenza), questi misteriosi / e quindicenni esprimono – al tempo stesso – un elevato bisogno di rigore etico e di vita serena, a fronte di un mondo che nega queste esigenze e induce al sospetto nei suoi confronti; anche quando si presenta come soggetto “regolatore” (lo Stato, la polizia…). Da qui la rappresentazione tendenzialmente “ansiogena”, proprio per le difficoltà di orientarsi nel contesto – al tempo – ostile e incomprensibile. Anche perché questa fascia generazionale non ha più a disposizione “agenzie” di apprendimento per la vita collettiva e la scuola si basa sul volontarismo di professori / professoresse spesso lasciati soli a presidiare la delicatissima materia. Difatti sono rare le voci critiche nei confronti dei propri docenti, che magari hanno parlato di quel Primo Levi che qualcuno ora sceglie come il suo eroe.
Sicché non è incongruo l’apprezzamento per l’istituzione familiare e insieme il risentimento per genitori troppo spesso assenteisti (o peggio). Qui la famiglia sta per il miraggio di un’isola felice, ricercata nelle relazioni di prossimità e descritta con il lessico culturale a propria disposizione. Una famiglia idealizzata, contrapposta a quella reale. L’impressione complessiva è quella di una coorte generazionale ad alto potenziale quanto in elevato pericolo di smarrimento. Un tema che dovrebbe entrare nel dibattito pubblico con assoluta priorità. A meno di non ritenere con Franco Battiato che “i ragazzi sono fottuti, dobbiamo pensare a salvare i bambini”.
Il Fatto Quotidiano, 23 Marzo 2012