Per gli analisti della banca statunitense Citigroup, da qui al 2020 la produzione di greggio e gas naturale in Stati Uniti e Canada potrebbe raggiungere i 26,6 milioni di barili al giorno, cioè il doppio rispetto a oggi
“La questione dei futuri bisogni energetici degli Stati Uniti e i modi per soddisfarli stanno dominando nelle ultime settimane la battaglia per la Casa Bianca con gli attacchi degli avversari repubblicani a Barack Obama per i recenti rialzi del prezzo del petrolio” scrive il britannico Telegraph che cita oggi i contenuti essenziali del rapporto. L’aspetto centrale del dibattito è però un altro: nel corso del 2011 gli Usa sono diventati esportatori netti di petrolio. Che significa? Semplicemente che gli americani sono stati in grado di vendere sul mercato estero più petrolio di quanto ne abbiano consumato. Un fenomeno che non si verificava dal 1949. A determinare il risultato un insieme di fattori: dall’aumento dell’efficienza energetica, allo sviluppo del settore green fino all’onda lunga di una progressiva contrazione della domanda interna che viaggia oggi attorno a quota 18,8 milioni di barili giornalieri. Circa il 10 per cento in meno rispetto al 2005.
Insomma, non mancano le condizioni favorevoli per un cambiamento radicale nel corso degli anni a venire che possa trasformare il Nord America in un protagonista senza pari del mercato mondiale. Ovvero, per usare l’espressione degli stessi autori del rapporto, in un “nuovo Medio Oriente”. Un evoluzione capace di creare 3,6 milioni di nuovi posti di lavoro con il fossile a farla da padrone accanto alla più celebrata green economy che da sempre è un tema chiave dell’attuale amministrazione della Casa Bianca. Un’evoluzione, come si accennava, resa possibile non solo dal surplus commerciale petrolifero americano e dall’aumento delle trivellazioni nel Golfo del Messico. Ma anche, in modo particolare dallo sviluppo delle attività estrattive del cosiddetto shale gas, o gas da scisti.
Si tratta di gas imprigionato negli strati di roccia più profondi che può essere estratto con un processo piuttosto complicato che implica diverse perforazioni oltre a iniezioni di acqua e soluzioni chimiche ad alta pressione, capaci di frantumare la roccia e di far risalire il gas stesso verso l’alto. Insomma, un procedimento molto costoso che lo rende decisamente meno conveniente rispetto al gas naturale dei giacimenti “tradizionali”. Eppure, da qualche tempo a questa parte le valutazioni economiche sono cambiate. Il motivo? Proprio la crescita del prezzo del petrolio che determina con uno scarto temporale abbastanza ridotto un adeguato rialzo del prezzo del gas. Insomma, se si supera un certo valore di mercato anche il gas da scisti può diventare conveniente. Esattamente quello che sta accadendo da un po’ di tempo a questa parte.
Le critiche ovviamente non mancano perché il processo di estrazione ha un impatto ambientale particolarmente problematico. Dal rischio di scosse sismiche, alla dispersione di metano passando per la fuga di sostanze chimiche utilizzate nel processo estrattivo, sono numerosi i fattori di rischio associati a questo tipo di materia prima. Eppure l’occasione è ghiotta. Negli Stati Uniti, secondo le stime dell’Energy Information Administration (EIA), ci sarebbero riserve di gas tradizionale per 7.700 miliardi di metri cubi. Per ciò che riguarda il gas da scisti, tuttavia, la cifra sale a 24.400 miliardi. Ancora più clamoroso il caso del Canada: 1.800 miliardi di metri cubi di gas convenzionale, 11 mila miliardi di metri cubi di shale. Per Russia e Qatar, principali produttori mondiali di gas naturale (47,5 e 25,4 migliaia di miliardi di metri cubi rispettivamente), non sono oggi disponibili stime sul comparto shale.