Uno degli indagati per il dissesto finanziario della fondazione chiama in causa Antonio Simone, ex dc nella giunta regionale della Lombardia negli anni Novanta. Ma spuntano anche in questo caso i Degennaro, gli imprenditori edili arrestati a Bari: "Portavano valigie di denaro a Mario Cal"
Il verbale di interrogatorio è tra gli atti depositati dalla Procura dopo la conclusione delle indagini nei confronti di 7 persone, tra le quali lo stesso Daccò e l’ex direttore amministrativo del San Raffaele Mario Valsecchi, accusati tra le altre cose di associazione per delinquere e bancarotta fraudolenta. Anche Grenci è indagato nell’ambito della stessa inchiesta, ma in uno stralcio che la Procura non ha ancora chiuso.
Grenci, che da quanto si è saputo sta collaborando con i pm Luigi Orsi, Laura Pedio e Gaetano Ruta, titolari delle indagini sul dissesto finanziario del gruppo ospedaliero, in un interrogatorio reso il 5 dicembre scorso, ha ricostruito la rete di società estere di Daccò, il quale, secondo l’accusa, avrebbe fatto sparire i fondi neri creati attraverso le sovraffatturazioni dei costi a carico dell’ospedale.
Nei giorni scorsi sempre dalle carte dell’inchiesta era emerso che ai vertici del San Raffaele era nota la “gestione dissipatoria” di don Luigi Verzé e del vice Cal. Ma in alcuni casi le spese folli che hanno portato al crac erano mirate a “fare favori a qualcuno”. Tra questi anche l’acquisto di un aereo da 35 milioni di euro presentato dal prete-manager come un’operazione necessaria nell’interesse di “qualcuno”.
“Daccò ci disse di trasferire i soldi sul conto di Simone”. Nel verbale quello che viene ritenuto il braccio destro di Daccò parla, in particolare, della società Harman che “fu costituita nel 2007 – racconta – per svolgere consulenze in favore della Fondazione San Raffaele, in Italia ed all’estero”. In realtà, ha spiegato ai pm, “l’unica fattura fu quella di 510 mila euro di cui mi avete detto (i pm infatti la contestano come uno degli episodi di dissipazione, ndr). Quasi tutto di questo importo (500 mila euro) Harman l’ha girato ad Euro Worlwide. Mi si chiede se questi soldi siano finiti ad Antonio Simone e, ripensandoci, mi ricordo che Daccò ci indicò di trasferire quella somma su un conto nominativo di Antonio Simone”, esponente della Dc lombarda e assessore regionale alla Sanità nei primi anni Novanta. Grenci fornisce ai magistrati – che stanno proprio indagando per capire che fine abbiano fatto i fondi neri – “gli estremi del conto corrente di Simone sul quale è stato effettuato il bonifico”, conto “acceso presso la Hvb di Praga”, cioè la Hypovereinsbank. Grenci ha chiarito anche, in un altro passaggio del verbale, che “i due, Simone e Daccò, hanno una serie di affari all’interno dei quali” avrebbero “stabilito che a Daccò andasse l’usufrutto” di una “villa” in Sardegna, a Olbia. E poi l’elenco di una serie di società e “iniziative” che legherebbero Daccò e Simone.
Il nome di Simone era già emerso in un interrogatorio dello scorso 3 settembre di Stefania Galli, la segretaria di Cal (ex vicepresidente della Fondazione San Raffaele che a luglio si è suicidato alcuni giorni dopo essere stato sentito in Procura). La Galli ha parlato di un “viaggio in Brasile a cui hanno preso parte anche il dott. Cal” e altre persone, tra cui per l’appunto Simone, “molto legato a Daccò”, ha precisato la Galli. La collaboratrice di Cal riferisce che l’ex assessore e Daccò accompagnarono Cal e un’altra persona “al fine di vedere le fazende della Vds e combinare un incontro con rappresentanti di Comunione e Liberazione per valutare la possibile vendita delle attività in argomento”. La Vds Export è una società fondata nel 2010 e proprietaria al 40% della holding brasiliana omonima impegnata nelle coltivazioni di mango, meloni e uva.
“Daccò gestiva 20 società all’estero”. Daccò, ritenuto dai pm il collettore dei fondi neri realizzati dagli ex vertici del gruppo a scapito delle casse dell’ospedale San Raffaele, avrebbe gestito una rete di una ventina di società estere. E’ sempre Grenci a precisarlo in un’interrogatorio del 22 dicembre scorso. Il braccio destro ha portato ai magistrati documentazione che dimostrerebbe le “operazioni finanziarie” delle “società e conti personali riconducibili” a Daccò. In particolare un faldone con le carte su 11 società e un secondo con i documenti su 9 società. In più anche documentazione su operazioni finanziarie di 6 “società e conti personali riconducibili proprio ad Antonio Simone.
Chi è Antonio Simone. La figura di Antonio Simone, milanese, 58 anni, riemerge dopo poco meno di 20 anni. Simone arriva molto giovane ai vertici della Regione Lombardia, all’inizio degli anni Novanta. E’ stato a capo del Movimento popolare, autentica longa manus politica di Comunione e Liberazione che corre fedele al fianco della Democrazia Cristiana. La formazione – politica e non – di Simone avviene per intero sotto l’ombrello dei movimenti cattolici di base. Laureato in scienze politiche alla Cattolica, inizia a fare politica già all’università. Fonda lui, per esempio, i Cattolici Popolari. Poi l’ingresso nel Movimento Popolare del quale diventa responsabile nazionale. Si iscrive alla Dc nel 1984, ma già da 4 anni è consigliere regionale (è stato eletto a 26 anni), carica che riesce a mantenere per un secondo mandato fino al 1990.
Nel frattempo matura i meriti per una promozione: nel 1987 viene nominato all’assessore al commercio e al turismo dall’allora presidente della Regione Bruno Tabacci ed è poi confermato dal successore Giuseppe Giovenzana. Dalla giunta Simone (nel frattempo rieletto per la terza volta in consiglio regionale nel 1990) non esce, gestendo la delega alla Sanità e poi quella al coordinamento del territorio, fino al 1992.
La carriera politica di Simone, infatti, viene piegata dalla bufera di Tangentopoli (che peraltro porta allo scioglimento anche il Movimento popolare). Il suo nome rimbalza in più di un’inchiesta giudiziaria: una volta sono le licenze edilizie a Pieve Emanuele, un’altra la costruzione del nuovo ospedale di Lecco, un’altra ancora i falsi corsi professionali finanziati dallo Stato e dall’allora Cee. Alle dimissioni da assessore, tuttavia, viene costretto nell’agosto del 1992 per un’altra storia. A chiamarlo in causa è Maurizio Prada, ex segretario amministrativo della Dc lombarda. Prada, che si è nel frattempo conquistato l’appellativo di “grande elemosiniere” dei democristiani, è considerato il collettore delle tangenti e tra i destinatari dei versamenti di denaro fa anche i nomi di Simone, per l’appunto, oltre che di Giorgio Cioni (allora stretto collaboratore del deputato Roberto Formigoni e anche lui vicinissimo a Comunione e Liberazione). Simone viene sentito dal pm Antonio Di Pietro, poi consegna al presidente Giovenzana le sue dimissioni.
Nel 1994, tuttavia, Simone viene arrestato dalla Guardia di Finanza, per la questione di Pieve Emanuele: accusato di corruzione, Simone avrebbe ricevuto tangenti per 300 milioni di lire dai proprietari di alcuni terreni per assegnare, tramite le varianti al piano regolatore, una destinazione edilizia favorevole.
Simone sparisce definitivamente dalla politica, ma resta sempre legato a Daccò, il “faccendiere amico dei politici”, ritenuto anche lui vicino a Cl. E in ogni caso la sagoma dell’ex assessore regionale rimane a lungo legata a Tangentopoli. Non fosse altro perché è lui a ricevere uno degli ultimi favori da Mario Chiesa, dal quale tutto il patatrac è partito. Niente che c’entri con il codice penale, ma proprio grazie al “mariuolo isolato” del Psi Simone (che da soli due mesi, per un rimpasto, ha lasciato la delega alla sanità) può trasferirsi con la famiglia in un appartamento da 300 metri quadrati di proprietà del Pio Albergo Trivulzio (contratto equo canone). Un’abitazione a meno di 50 metri dall’Arco della Pace tornata sui giornali lo scorso anno per lo scandalo degli appartamenti extralusso dell’istituto concessi a canoni bassissimi. L’intestataria di quella casa valutata un milione e 556 mila euro era ancora Carla Vites. La moglie di Simone.
I rapporti con Degennaro. Anche nell’inchiesta sul San Raffaele spunta la Dec, società dei costruttori Daniele e Gerardo Degennaro. C’è un indagato (Pierino Zammarchi, imprenditore edile, nei confronti del quale le indagini sono terminate) infatti che dice di aver visto uno dei Degennaro portare soldi in una valigia a Cal: “Non lo sapevo. Prendo atto delle dichiarazioni rese da Pierino Zammarchi – ha spiegato ai pm l’ex direttore dell’ospedale Valsecchi – quando ha dichiarato di avere visto Degennaro portare soldi in valigia a Cal in 5-6 occasioni”.
Poi i pm chiedono conto a Valsecchi di alcuni “pagamenti a Saint Premier Mont”, che, secondo Valsecchi, è una “società svizzera” riferibile a tale “Coscera”. Questa società, chiarisce Valsecchi, “aveva fatto un contratto per individuare Degennaro. Quando la Fondazione (San Raffaele, ndr) iniziò a pensare alla costruzione del Dibit 2 (il Dipartimento Universitario di Medicina Molecolare del San Raffaele, ndr) ci fu una trattativa con la società austriaca Vamed, abortita. Fu così che Coscera, il responsabile di Saint Premier Mont, ci presentò Degennaro. La sua Dec si prese l’incarico di trovare il finanziatore. Sia la Fondazione che Dec pagarono una doppia ‘fee’ a Coscera”. Nacque anche un contenzioso, spiega ancora Valsecchi, “perchè Degennaro sostenne che non doveva nulla a Coscera perchè non era stato questo a presentarlo alla Fondazione. Non so chi avrebbe presentato Degennaro alla Fondazione al di fuori di Coscera”. Valsecchi sostiene che “la prima volta che ho visto Degennaro me lo ha presentato Coscera”.
In un altro passaggio dei verbali l’ex direttore del San Raffaele spiega anche che “Coscera è stato anche retribuito per l’intermediazione sul Dibit 2, per aver presentato all’ospedale il costruttore Degennaro della Dec disponibile a finanziare l’operazione”. Anche in questo caso, si legge ancora nel verbale, “Coscera fu pagato dalla Fondazione tramite Sain Premier Mont e mi disse che Cal gli aveva chiesto una retrocessione”. Il meccanismo delle ‘retrocessioni’ di contanti è al centro dell’inchiesta: secondo l’accusa, infatti, alcuni fornitori e alcuni soggetti in rapporti d’affari con l’ospedale sovraffatturavano i costi ai danni delle casse del gruppo e retrocedevano poi soldi in contanti ai vertici del San Raffaele, i quali li giravano all’uomo d’affari Daccò che gestiva i fondi neri, riuscendo così ad occultarli.
Dal canto suo la Dec, con una nota, sottolinea che i rapporti della società con la dirigenza del San Raffaele “si sono sviluppati nella massima correttezza e trasparenza”, che già “nel luglio 2011 l’amministratore unico della Dec, quale persona informata sui fatti, ha chiarito alla polizia giudiziaria di Milano ogni fatto e circostanza così come richiesto” e infine che già nel 2009 la Dec ha denunciato proprio Cal “per le sue dichiarazioni false e calunniose oggi emerse dagli atti d’indagine”.