Ci sono casualità nella vita che, spesso, non sai nemmeno come spiegare. Forse, semplicemente, non devi. Da qualche giorno, come tanta parte di americani, seguo l’evolversi della tragedia che ha toccato Trayvon Martin. Per chi non lo sapesse, Trayvon era un ragazzino di diciassette anni che viveva a Sandford in Florida e che è stato brutalmente ammazzato da George Zimmerman un ispanico di ventotto anni che faceva il “vigilante” nel suo quartiere. Trayvon era disarmato ed era un ragazzino come tanti altri; come tanti altri indossava una felpa con un cappuccio e prima di essere sparato parlava al cellulare con un’amica, alla quale raccontava di quell’uomo che continuava a guardarlo con una faccia strana, che lo preoccupava.

Trayvon non aveva armi. Non era un attaccabrighe. Non stava infastidendo nessuno. Aveva solo diciassette anni e la pelle nera. Abbastanza per doversi guardare le spalle in Florida e in altri Stati. Ancora, purtroppo.

La cosa più atroce della vicenda è che, sin dall’uccisione del giovane Trayvon, avvenuta alla fine di febbraio, George Zimmerman è libero e non è mai stato incriminato. Nemmeno ora, dopo che il barbaro omicidio, per fortuna, soprattutto grazie ai social media, è diventato un caso nazionale, esiste un mandato di arresto per Zimmerman. Perché dal 2005 in Florida esiste una legge che equipara questo Stato (così come degli altri 20 in cui è ugualmente in vigore) all’immagine più triste, violenta e insopportabile di un film di cow boy di quart’ordine. La legge si chiama “Stand your ground” e rappresenta un’estensione incontrollata della legittima difesa, in base alla quale, chiunque abbia “il ragionevole sospetto che la propria vita o quella di un altro sia in pericolo o che si stia per commettere un crimine, può intervenire anche con un atto violento mortale”. Della serie, se hai un sospetto, spara tanto poi ci ragioniamo su dopo, con calma. Appellandosi a questa legge, affermando che Trayvon aveva minacciato la sua incolumità, George Zommerman non è stato ne’ imputato ne’ arrestato ed è un uomo completamente libero.

Fra i maggiori sostenitori della legge, ovviamente la National Rifle Association, i Signori delle armi un tanto al chilo, quelle carine da mettere in borsetta e adatte ad ogni occasione.

A diciassette anni Trayvon è stato ucciso per il colore della sua pelle da un ispanico (lo ripeto apposta per sottolineare l’assurdo) che ora è libero perchè una legge inumana ha reso l’omicidio legale.

“Se avessi avuto un figlio, sarebbe stato cosi”, ha detto Obama, che nei quattro anni di presidenza ha scelto di non intervenire quasi mai (lo ha fatto una sola volta) in questioni legate alla razza. Lo ha fatto ieri e ha fatto bene. Perché quel colore di pelle, il suo, va detto, è ancora fastidioso per molti. E’ ancora appena tollerato, malapena sopportato, malamente digerito da tanti, troppi americani.

A volte accadono cose che non sai spiegarti ma ieri sera, dopo essermi occupata della tragedia di Trayvon, mi sono ritrovata, per puro caso, a guardare “The help”, il film ambientato negli anni 50 in Mississippi, in pieno periodo di segregazione razziale. E mi sono sentita immensamente triste e sconfortata. Ma poi ho pensato anche ai miei nipoti, una bianca colore del latte e l’altro nero come il cacao, e mi sono detta che loro lo cambieranno questo schifo di mondo, alla faccia di tutti quelli che confondono le questioni di pelle per ragioni di vita.

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