Investire nella cultura, con strategie di lungo periodo, serve alla crescita. Non a caso ci aveva già pensato Franklin Delano Roosevelt ai tempi della grande depressione. Dopo la dissennata politica dei tagli orizzontali, con scarse risorse pubbliche a disposizione, si dovrà definire una governance indipendente, capace di garantire una buona selezione dei progetti, evitando di cadere nelle pressioni degli interessi corporativi, e capace di fare rete con tutti gli attori del settore. Compresi i privati, come le fondazioni bancarie, e i produttori di saperi, come le università.
di Francesco Vella* (lavoce.info)
Tante le adesioni al manifesto “Niente cultura, niente sviluppo” promosso dal supplemento della domenica delSole-24Ore e numerosi anche i contributi alla discussione.(1)
Cultura e crescita economica
Il filo conduttore è sempre lo stesso: investire in questo settore con strategie di lungo periodo serve alla crescita. Bisogna quindi invertire completamente la pratica, molto frequentate negli ultimi tempi, di considerare le risorse destinate alla cultura come spese inutili o comunque da collocare nella zona retrocessione della classifica delle priorità degli interventi nella crisi.
Al contrario, siamo in presenza di un grande volano per lo sviluppo economico, tanto che una ricerca presentata nel 2010 calcolava in 3,8 milioni di unità, l’occupazione legata alla filiera produttiva che ruota intorno al patrimonio culturale. (2) Bisogna innanzitutto capire quante sono le energie che questo serbatoio mette a disposizione e poi articolare una seria politica che le valorizzi per aiutare l’Italia a uscire dalla crisi, e gli italiani a liberarsi dai grandi fratelli e delle isole dei famosi. Una liberazione che, secondo Gilberto Corbellini, non solo migliora il nostro grado di civiltà, ma cambia la società e l’economia perché, i dati empirici lo dimostrano, competenze artistiche, capacità immaginative e creatività producono “innovazione in tutti i settori della vita economica e istituzionale di un paese”. (3)
La chiave di lettura è, naturalmente, a 360 gradi: quando si parla di cultura si va dalla tutela del paesaggio alla promozione dell’arte e della musica, dagli investimenti in capitale umano, all’istruzione e all’educazione (non sono la stessa cosa). E quando si parla di interventi non ci si riferisce solo al ruolo dello Stato, ma anche a come possano lavorare con efficacia i vari attori del privato, come le imprese, i singoli donatori e la miriade di organizzazioni del mondo non profit.
Un intreccio complesso che va messo “a sistema” seguendo diverse direzioni: un serio presidio del pubblico, una logica di trasparente collaborazione e partenariato con il privato, una buona attrezzatura fiscale che favorisca le donazioni e una altrettanto seria attrezzatura che garantisca quel minimo di verifica e accountability per tracciare i percorsi delle risorse messe a disposizione e i loro risultati.
Franklin Delano Roosevelt e il Federal act project
Un obiettivo nobile fondato su quella che Tommaso Padoa-Schioppa chiamava la “veduta lunga”, ma che proprio per questo, e per evitare di rimanere sul terreno dei semplici buoni propositi, presuppone la definizione di una road map che indichi i tempi e le tappe per raggiungerlo. (4)
In tempi lontani, ma notoriamente sempre evocati in questo periodo, Franklin Delano Roosevelt ci provò con il Federal Art Project che aveva proprio lo scopo di mitigare, per quanto possibile, gli effetti devastanti che la crisi del ’29 aveva sulla società americana. Un progetto coordinato con il massiccio programma di occupazione delWorks Progress Administration e declinato in varie componenti, il Federal Music Project, il Federal Theatre Project, il Federal Writers Project. La caratteristica era proprio quella di coniugare i bisogni della crescita, offrendo occasioni di lavoro ai tanti e precarissimi artisti (molti pittori oggi famosi furono tra coloro impiegati con stipendi da 50 a 150 dollari mensili), con quelli della cultura disseminando nel paese tante e diverse forme di creatività: famosi i 2.550 murali in ospedali, scuole e altri edifici, i 108mila quadri, le 18mila sculture. (5) Soltanto nell’area di New York si stima che 50mila fra adulti e bambini parteciparono a corsi di educazione artistica. Non mancarono certo criticità, i rischi di censura dietro le politiche di incentivo, ma il disegno di fondo era molto attuale: dopo la crisi è riduttivo dire solo che bisogna tornare a crescere perché il vero problema è come si cresce: i sentieri per lo sviluppo sono tanti e prendere quello della cultura non è affatto scontato.
Senza illusioni, ma con grandi ambizioni
Con alle spalle la dissennata politica dei tagli orizzontali e davanti un futuro dove le scarse risorse pubbliche dovranno inevitabilmente indirizzarsi sul “poco, ma buono”, guardare alla storia potrebbe essere utile, non soltanto indirizzando e coordinando gli interventi, ma anche definendo una governance indipendente che garantisca buona selezione ed eviti di cadere nelle pressioni degli interessi corporativi. E una governance che sia in grado di fare “rete” con tutti gli attori del settore. Anche i maggiori protagonisti privati, come le fondazioni bancarie, sono impegnati in una dura cura dimagrante dovuta ai noti salassi nel rendimento dei loro asset e hanno le stesse esigenze di selezione, efficienza e attento monitoraggio dei risultati. E i produttori di saperi, come le università, devono uscire da sentieri a volte troppo autoreferenziali e specialistici, per fare della educazione permanente e dei rapporti con il territorio un pezzo della loro missione.
In questa prospettiva, è utile innanzitutto disegnare nuove articolazioni istituzionali; ad esempio, e per uscire dalle facili astrazioni, “rete” significa definire accordi contrattuali con specifici impegni per ciascuno (una forma di contratto di rete, che coniuga flessibilità, autonomia dei contraenti e strategie cooperative ha da poco avuto cittadinanza nel nostro ordinamento).
E, guardando anche a quello che succede in Europa e nel mondo, sperimentare linee di policy e strumenti che meglio possono adattarsi a un contesto post-crisi. Dai finanziamenti diretti alla domanda, a particolari forme assicurative per gli artisti, fino allo sfruttamento di piattaforme di crowdfunding. (6) Tutto il settore delle Cultural and Creative Industries, caratterizzato da una struttura prevalentemente di piccole dimensioni e quindi particolarmente vicina al dna del nostro apparato produttivo, è oggetto di grandi attenzioni e progetti di investimento come la creazione di Cci Innovation Centre, che possono rappresentare utili riferimenti. (7)
Insomma, una road map concreta e graduale, senza illusioni, ma, finalmente, con grandi ambizioni.
(1) “Niente cultura, niente sviluppo”, Il Sole-24Ore, 19 febbraio 2012.
(2) Istituto Guglielmo Tagliacarne, Il sistema economico integrato dei beni culturali, sul sito www.beniculturali.it
(3) G. Corbellini, “La conoscenza ci libera dal pizzo”, in Il Sole-24Ore, 26 febbraio 2012.
(4) T. Padoa-Schioppa, La veduta corta, Il Mulino, 2009.
(5) D. Adams, A. Goldbard “New Deal Cultural Programs: Experiments in Cultural Democracy”, sul sito www.wwcd.org/poilcy/US/newdeal.
(6) Vedi, rispettivamente, A. M. A. Merlo, “Finanziamenti pubblici alla cultura: meno, ma meglio”, in Economia della Cultura, n. 1, 2011, p. 15. F. D’Amato, “Utenti, azionisti, mecenati. Analisi della partecipazione alla produzione culturale attraverso il crowfunding”, in Studi Culturali, n. 3, 2011, p. 373.
(7) Vedi, rispettivamente, European Commission “The entrepreneurial dimension of the cultural and creative industries”, 2010 sul sito www.ec europe .eu/culture. Bis, “Access to Finance e for Creative Industry Businesses”, May, 2011, sul sito www.bis.gov.uk. M. Serares, “Cultural policies in Australia”, International Federation of Art Councils and Culture Agencies, June 2011.
*Francesco Vella è ordinario di Diritto Commerciale presso l’Università di Bologna.