Cronaca

Tabucchi, uomo libero

Ci sono momenti in cui il nostro mestiere è davvero feroce, impietoso. E questo è uno di quelli: scopri che un tuo amico è morto e, invece di startene in silenzio a ricordarlo, magari a pregare per lui, ti tocca subito scriverne. Pochi minuti fa ho saputo che è morto Antonio Tabucchi, a Lisbona. Dicono che “era da tempo malato”. Non l’aveva detto nemmeno agli amici. Sapevo, me ne aveva parlato nell’ultima telefonata dal Portogallo qualche mese fa, di una frattura a una gamba, che aveva aggravato i suoi problemi alla schiena. Altro non so. Quello che so di lui è che era uno dei pochissimi intellettuali internazionali rimasti all’Italia (non direi “in Italia” visto che ci viveva poco, e con sempre maggiore disagio). Temo che la parola “intellettuale” non sarebbe piaciuta a lui così schivo, minimalista, autoironico, antiretorico, quasi autobeffardo. Ma, se la parola “intellettuale” aveva ancora un senso, è proprio perché c’era lui. Non ho voglia né competenza per disquisire sul valore letterario dei suoi romanzi e dei suoi racconti. Ma sono stato testimone del suo modo di concepire la cultura e l’impegno: fu nel 2002, quando cominciò a scrivere sull’Unità perché nessun grande giornale italiano “indipendente” poteva più ospitare gli articoli di uno dei più noti scrittori italiani, tradotto in tutto il mondo, solo perché erano irriducibilmente critici contro il regime di Berlusconi e contro chiunque non vi si opponesse con la necessaria intransigenza. Compreso il presidente Ciampi, che qualche legge vergogna la bocciava ma molte altre le promulgava. Un giorno Tabucchi, sull’Unità e su Le Monde, criticò duramente Ciampi per una sua apertura sui “ragazzi di Salò”: per protesta il senatore Andrea Manzella, consigliere del Quirinale, lasciò la presidenza dell’Unità.«Che razza di Nazione è quella dove uno scrittore può insolentire il capo dello Stato sull’Unità e su Le Monde?», si domandò Bruno Vespa, convinto che il dovere dell’intellettuale sia quello di servire e plaudire sempre il potere, mai di criticarlo. Tabucchi non ne faceva passare nessuna a nessuno. Uno dei suoi bersagli prediletti era Giuliano Ferrara, il più servile dei servi berlusconiani eppure sempre considerato “intelligente” da chi a Berlusconi avrebbe dovuto opporsi. Una sera, a Porta a Porta, Ferrara definì l’Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro “giornale omicida” e accusò Colombo e Tabucchi di essere nientemeno che i “mandanti linguistici del mio prossimo assassinio” (che naturalmente non ci fu). Qualche anno dopo rubò letteralmente un articolo che Tabucchi aveva scritto per Le Monde, in cui ricordava i trascorsi di Ferrara come spia prezzolata della Cia, e lo pubblicò in anticipo sul Foglio. Tabucchi gli fece causa al Tribunale di Parigi, e la vinse. Ricordo la sua soddisfazione appena uscì la sentenza, che riportava il tragicomico interrogatorio di Ferrara, il quale ammetteva che, sì, aveva confessato lui stesso di aver fatto l’informatore a pagamento di un servizio segreto straniero, ma non era vero niente, la sua era solo una “provocazione”: tant’è che – aggiunse – non ci sono le prove. Figurarsi la faccia dei giudici parigini dinanzi a questo “giornalista” ed ex-ministro italiano che si vanta di raccontare frottole sulla propria vita e aggiunge: trovate le prove di quel che scrivo, se ne siete capaci. Infatti fu condannato su due piedi. Ecco, in quella sentenza, oltre a quello dei giudici, c’era anche tutto lo stupore di Antonio, che essendo un cittadino del mondo prestato all’Italia non riusciva a tollerare tutto ciò che, per assuefazione e rassegnazione, in Italia si ingoia e si digerisce. E si ostinava a chiamare le cose con il loro nome: quello berlusconiano era un “regime”, chi non lo ostacolava era un “complice”, chi lo sosteneva era un “servo”, chi deviava dal dettato costituzionale era un “eversore”, chi violava le leggi era un “delinquente”, chi approfittava delle cariche pubbliche per farsi gli affari suoi era in “conflitto d’interessi”, dunque “ineleggibile”. Per questo Tabucchi era isolato e malsopportato nel mondo degli intellettuali italiani: perché, essendo un uomo libero, mostrava loro col suo esempio ciò che avrebbero dovuto essere e invece non erano. Per viltà, conformismo, sciatteria, convenienza, paraculaggine, quieto vivere.

Per questo i politici (tutti) lo ignoravano, anzi lo temevano: non tanto a destra (lì si legge poco e si capisce ancor meno), quanto a sinistra (bersaglio fisso dei suoi strali contro gli inciuci dei D’Alema e dei Violante). Per questo, tre anni fa, quando Padellaro e io gli annunciammo la prossima nascita del Fatto quotidiano, si prenotò subito per collaborarvi. E ci mandò articoli, e ci concesse interviste, e ci regalò anticipazioni dei suoi libri, ma soprattutto la sua vicinanza, la sua amicizia, i suoi consigli mai banali, mai scontati. Le sue critiche irriducibili, definitive al regime non risparmiarono nemmeno Napolitano (che diversamente da Ciampi di leggi vergogna non ne respinse nemmeno una) e infatti potevano trovare ospitalità solo sul Fatto. Così come un anno fa fu il Fatto a pubblicare la versione integrale di un suo articolo, scritto per Le Monde ma tagliuzzato persino dal tempio dell’informazione parigina, in cui faceva a pezzi l’intellighenzia francese che aveva scambiato per un martire un volgare assassino come Cesare Battisti. Pochi mesi dopo, quando Battisti fu accolto trionfalmente in Brasile e lì protetto dalle autorità, Tabucchi rifiutò di intervenire al festival letterario di Paraty per protesta contro il governo di Brasilia.

Tabucchi era anche un amico di Annozero: ricordo che intervenne in collegamento da Parigi nella famosa puntata con Luigi De Magistris e Clementina Forleo, che poi costò il posto e la carriera a entrambi i magistrati coraggiosi: aveva capito che, su quelle due vicende, si giocava un bel pezzo della nostra democrazia, intesa come separazione dei poteri. Un’altra volta, da Santoro, si parlava della legge bavaglio sulle intercettazioni e lui, col suo feroce e placido candore tipico dell’italiano all’estero, ricordò che i parlamentari non possono essere intercettati: se la loro voce viene captata da una cimice è perché parlano con qualche delinquente intercettato: “Se i nostri politici telefonassero alla Caritas o alla Comunità di Sant’Egidio nessun giudice li ascolterebbe”.

I ricordi personali si affollano, in questi primi momenti senza di lui. La sera che lo conobbi, in un paesino della Toscana a due passi dalla sua Vecchiano: presentavo un mio libro in un teatro con Peter Gomez, lui si mescolò tra la folla e alla fine si fermò a cena fino alle due di notte. Pochi mesi dopo due suoi cari amici di Pisa, Alma e Roby, organizzarono un incontro con me a Pisa per presentare “Montanelli e il Cavaliere”, e lui volle essere sul palco, perché Adriano Sofri (che lui pure aveva difeso nel processo, reputandolo innocente a differenza di quel che ho sempre pensato io), mi aveva pesantemente attaccato sul Foglio proprio alla vigilia, e correva voce che qualche suo amico pisano sarebbe venuto a contestarmi. E poi le cene nella casa di Vecchiano, con l’adorabile moglie Zè e gli amici Alma e Roby. E una cena in un bistrot di Parigi, dove gli presentai Barbara Spinelli e Tommaso Padoa-Schioppa, altri grandi amici del Fatto.

Quand’ero all’Unità, Antonio prese carta e pena per difendermi da una campagna orchestrata dal Corriere sulla mia presunta “misoginia” per una mia critica a Ritanna Armeni, che faceva da spalla a Ferrara a “Otto e mezzo”. E tornò a farlo quando, su Repubblica, un collega oggi scomparso mi attaccò per avere io osato ricordare le amicizie mafiose di Schifani. Per quell’articolo Schifani, già presidente del Senato, gli fece causa civile e gli chiese 1 milione e 300 mila euro. Di quella causa parlammo tante volte, anche nell’ultima telefonata dall’ospedale: seguiva la sua difesa parola per parola, voleva sapere tutto, raccoglieva i documenti che gli mandavo sulle amicizie schifaniane e poi li commentava, felice di avere scritto soltanto la verità, nient’altro che la verità. Ma anche incredulo, sempre per quel candore che descrivevo prima, di fronte a un’alta carica dello Stato che chiede un milione e rotti a un privato cittadino, a un intellettuale: un fatto impensabile in qualunque altro paese del mondo.

Ora mi auguro che nessun politico dica una parola sulla sua morte. Sarebbe davvero troppo.