La crisi dell’ambiente non sta facendo niente per nascondersi ai nostri occhi. Il pianeta continua a riscaldarsi, gli oceani ad acidificarsi, le specie a scomparire a velocità vertiginosa. La salute di un numero crescente di ecosistemi si sta indebolendo, e questi saranno sempre meno in grado di fornire all’umanità tutti i servizi – acqua, ossigeno, cibo, depurazione, riciclo; tanto per citarne solo alcuni – di qui questa non può fare a meno. Se ci aspettiamo che siano i nostri governi – tutti i governi del mondo – a risolvere queste crisi ambientali, siamo fritti (anche letteralmente). Spazio per agire ce n’è ancora, anche se si sta rapidamente riducendo. Dobbiamo smetterla di stare lì impalati nella speranza che i governi facciano qualcosa, perché non lo faranno. È il tempo per tutte le donne e gli uomini di buona volontà di sporcarsi le mani.

Questo non lo dico io, anche se della cosa sono personalmente convinto ormai da un pezzo. Lo ha recentemente affermato un consesso di autorevolezza indiscussa, i vincitori del Blue Planet Prize, una sorta di Nobel dell’ambiente. Non esattamente un’accozzaglia di scalmanati ambientalisti visto che comprende, tra gli altri, il consigliere scientifico del ministero dell’ambiente britannico, il sottosegretario al commercio per gli oceani e l’atmosfera degli Stati Uniti, e l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn), un organismo di cui fanno parte 89 nazioni e 124 agenzie di governo.

Riunitisi a Londra alcune settimane or sono per accordarsi su una dichiarazione congiunta in preparazione dell’imminente Summit della Terra “Rio + 20”, che si terrà in Brasile il prossimo giugno, i Premi Blue Planet hanno stilato un documento, “Environmental and Development Challenges: the imperative to act contenente indicazioni sulle sfide di governance che le società dovranno affrontare per ricondurre l’umanità sulla retta via del suo rapporto con il pianeta su cui vive.

La conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio nel 1992 aveva inaugurato un’era di ottimismo planetario, introducendo nel pensiero comune concetti come sostenibilità e precauzione, e dando mandato ai governi della Terra di attuare misure per contrastare, tra le altre cose, il cambiamento del clima e la perdita di biodiversità. Dopo vent’anni tutto quello che possiamo dire è che, in un momento in cui ogni minuto è prezioso, questi vent’anni li abbiamo semplicemente buttati via. I risibili recenti risultati dei negoziati sul clima (Copenaghen, Cancun) sono noti al grande pubblico. Meno conosciuto è il fiasco complessivo causato alla Convenzione sulla biodiversità dall’inanità delle azioni dei governi. Riunitesi in Giappone l’anno scorso, le parti di questa peraltro importante convenzione hanno occultato i brucianti insuccessi di target mai raggiunti, azioni mai intraprese, degrado mai arrestato con le roboanti note della “Dichiarazione di Nagoya”, zeppa di meravigliose intenzioni e di nuovi target, che sappiamo tutti benissimo non verranno mai raggiunti. Difficile non sentirsi presi per i fondelli.

Oggi, usciti finalmente, seppur malconci, dall’età dell’innocenza, cosa possiamo fare? Qui non si tratta tanto di prendersela con una classe politica incompetente, disinteressata, disonesta: che diamine, mica saranno delle mele marce proprio tutti quanti. Molti forse, ma certo non tutti. Il problema risiede non tanto nelle intenzioni, ma nel modo in cui è strutturata la governance dei paesi: impossibilitata a prendere misure sacrosante, ma impopolari alle masse degli elettori che ancora non hanno colto la gravità dei problemi, e al tempo stesso legata ai diktat di mercati e di economisti che ancora si ostinano, vuoi per deliberata intenzione, vuoi per incapacità culturale o strutturale, a tenere al di fuori delle loro dotte equazioni sia i benefici dei servizi offerti dagli ecosistemi in buona salute, sia i costi del loro degrado.

Di ricreare l’ordine mondiale per far fronte in maniera efficace ai problemi dell’ambiente manco parlarne; magari dopo qualche cataclisma planetario, ma è proprio questo quello che vorremmo evitare.

Dunque, come suggeriscono i Premi Blue Planet, occorre fare affidamento sui poteri locali, assai più strettamente e genuinamente legati ai problemi del territorio di quanto non lo siano i governi centrali, in stretta collaborazione con le Ong, da tempo il principale motore culturale della consapevolezza ambientale, e con il supporto del settore privato. Ai governi dovrebbe rimanere il ruolo, peraltro importante, del controllo di qualità dei processi, oltre che quello, più importante ancora, di evitare di mettersi di traverso ai processi stessi. Come cantava Bob Dylan, “ … come senators, congressmen, please heed the call, don’t block at the doorway, don’t block up the hall”.

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