Una donna di 29 anni è morta due giorni fa a Barletta, a causa di un accertamento diagnostico banale; altre due donne hanno sofferto di una grave intossicazione, ma sono state curate al locale pronto soccorso e sembra siano fuori pericolo. Il farmaco assunto dalle tre donne era il sorbitolo, una molecola semplicissima, che forse non dovrebbe neppure essere chiamata un farmaco: deriva dal glucosio, lo zucchero presente nel nostro sangue, ed è fisiologicamente prodotta nel nostro organismo dall’enzima aldoso reduttasi. Poiché il sorbitolo non ha veri effetti tossici (in alte dosi può causare diarrea), tanto meno letali, la sostanza responsabile di queste tre gravi intossicazioni non può che essere un contaminante della preparazione: qualcosa che non avrebbe dovuto esserci e invece c’era. La natura chimica di questo contaminante per ora non è nota: sono in corso accertamenti chimici sul preparato usato. L’unica certezza è che il preparato era stato acquistato tramite internet dallo studio medico al quale le donne si erano rivolte.
Su internet, si sa, si risparmia: una ditta che vende su internet taglia in larghissima misura i costi della catena della distribuzione. La ditta produttrice del sorbitolo incriminato, però, non ha tagliato soltanto i costi della distribuzione: ha evidentemente tagliato anche sui costi del controllo di qualità del suo prodotto. Per una molecola semplice come il sorbitolo, il controllo di qualità rappresenta una frazione rilevante del costo di produzione: serve a garantire che ogni diverso “bagno” di preparazione sia ragionevolmente puro dai contaminanti che si formano inevitabilmente nel processo produttivo, secondo le specifiche della farmacopea ufficiale e che sia riproducibile: cioè che le diverse preparazioni siano tutte ragionevolmente uguali. Il controllo di qualità non è costoso solo per il suo (modesto) costo intrinseco: lo è soprattutto perché costringe la ditta produttrice a scartare un bagno di preparazione venuto male per i motivi più disparati: ad esempio una contaminazione da metalli pesanti (alcuni come il mercurio sono molto tossici) o da prodotti di una reazione chimica precedente condotta negli stessi contenitori.
L’acquisto di farmaci su internet consente un pericoloso risparmio, che oggi apparentemente riscuote un grande successo. E’ il frutto di una mentalità un po’ americana per cui il consumatore può sempre avere “di più” e per meno (Umberto Eco, anni fa, scrisse un bell’articolo in proposito). Il consumatore italiano o mondiale è irretito da questa promessa di risparmio che consente di avere lo stesso prodotto a minor costo: ma una cosa che costa un euro non può valere più di un euro e se è vero che le grandi case farmaceutiche realizzano guadagni esagerati sui loro carissimi prodotti, è anche vero che danno maggiori garanzie sui processi produttivi. Purtroppo la qualità costa e il risparmio può avere un prezzo elevato; nel caso di Barletta, poi, il risparmio era per lo studio medico e neppure per il paziente.
Né il legislatore né il consumatore possono richiedere la massima qualità ad ogni costo perché il costo della qualità è elevato; ma non possono neppure autorizzare o praticare il risparmio indiscriminato perché il risparmio, oltre un certo livello, è pericoloso. Si deve affrontare un delicato compromesso nel quale il legislatore deve imporre standard produttivi ragionevoli ed il consumatore deve acquistare soltanto da ditte che dimostrabilmente li rispettino. Le ditte che vendono solo tramite internet non danno nessuna garanzia di rispettare gli standard dei paesi in cui spediscono i propri prodotti o di quelli dei paesi in cui li producono: sono le più inaffidabili per acquistare qualunque cosa, soprattutto quelle che dobbiamo introdurre nel nostro organismo.