Cinema

I settant’anni di L’alibi nero

Dei tre film girati da Jacques Tourneur per il produttore Val Lewton è considerato erroneamente l’anello debole. Certo, L’uomo leopardo (1943) non ha la forza di rottura di Il bacio della pantera (1942) né la perfezione plastica di un capolavoro come Ho camminato con uno zombi (1943), ma per certi versi è il più evoluto tra tutti e tre. Rivisto oggi dimostra una modernità che ha pochi pari: da sotto le ombre di un villaggio messicano in cui ognuno ha la sua colpa affiora un magistero espressivo in cui lo spaccato sociale si alterna ad un’attenzione alla psicologia dei personaggi davvero incredibile per il tempo. Un film che esercita uno strano fascino sullo spettatore, oscuro, anche malsano, volutamente privo di un centro, di un protagonista, di uno sguardo unitario.

Pubblicato esattamente settant’anni fa in America, il romanzo Black Alibi di Cornell Woolrich fornisce al copione di questo thriller in punta d’orrore una storia insolita, dai confini incerti, come se l’intreccio fosse stato abbozzato solo per parlare d’altro. Quasi fosse un pretesto. O un alibi appunto. In Italia, esce per la collana Gialli Mondadori nel 1953 con il titolo di L’alibi nero: è il secondo titolo della celebre “serie nera” cui appartiene anche il libro alla base di La sposa in nero (1967) di Truffaut. Meglio che in altre opere dello scrittore, qui, conta la manifestazione improvvisa della paura, successiva alla descrizione di scene di morte dal ritmo già evidentemente cinematografico (lo stesso Dario Argento attingerà alle sue pagine per la celebre sequenza del cimitero in Quattro mosche di velluto grigio).

Anche per questo L’uomo leopardo è una perfetta macchina di spavento con alcuni dei momenti meglio calibrati di tutta la produzione di Val Lewton, produttore-ideatore capace di mettere in crisi quella “politica degli autori” secondo cui il regista sarebbe l’unico autore della pellicola. Attraverso una manciata di film a basso costo che contribuirono a mettere in salvo le casse della RKO all’inizio degli anni Quaranta, questo malinconico e infaticabile cineasta stravolse il genere sostituendo alla visione diretta dell’orrore la costruzione di un mondo fatto di sussurri e minacce incombenti. Fu una rivoluzione. Peccato che la sua straordinaria lezione oggi sia poco seguita. E che La settima vittima (1943) di Mark Robson oppure La iena-L’uomo di mezzanotte (1945) di Robert Wise abbiano avuto ben pochi eredi. Stando agli ultimi anni, più lewtoniano di Shutter Island (2010), per cui Scorsese dichiarò apertamente l’influenza del produttore, risulta forse The Orphanage (2007) di Juan Antonio Bayona, horror famigliare tenero e perverso.