E’ l’ombra di se stesso, il Calisto Tanzi di oggi. Denutrito, scavato in volto, dimagrito oltre trenta chili. Un uomo che – ma questo lo stabiliranno i giudici del tribunale di sorveglianza – rischia di morire.
E’ difficile entrare nel merito senza farsi travolgere dalle emozioni. Potrebbe essere una sceneggiata. Noi sappiamo che Tanzi non solo è colpevole di aver messo in ginocchio decine di migliaia di risparmiatori, ma anche – nel periodo in cui era agli arresti domiciliari – di aver cercato di intercedere su nomine bancarie, di aver messo in piedi un’altra società, di aver occultato beni che aveva accumulato con soldi sottratti, rubati, a povera gente. Questo è il signor Calisto Tanzi. L’uomo che oggi si sente responsabile, ma che fa fatica ancora a pronunciare la parola colpevole. Tutto questo è. Ma sappiamo bene anche cosa potrebbe diventare: una vittima della giustizia, un’altra fotografia sul marmo da esibire nella prossima campagna elettorale nei comizi di Berlusconi o chi per lui. Ma sarebbe il male minore: almeno la credibilità il Pdl dovrebbe averla persa.
Il male maggiore è che comunque l’idea che in una democrazia sviluppata come dovrebbe essere l’Italia, non si può morire in carcere. E’ l’esatto equivalente della pena di morte, quella pratica che divide noi europei dagli Stati Uniti d’America più di quanto non faccia l’Oceano. Le condizioni di salute di Tanzi sono serie, su questo non c’è dubbio: è già stato ricoverato più volte all’ospedale Maggiore di Parma e in carcere è costantemente monitorato. Questo è il volto presentato in aula, insieme a una quasi ammissione di colpevolezza e a generiche scuse può non bastare. Un aneddoto curioso, giusto per spiegare chi era Tanzi: il giorno in cui si consegnò alla giustizia, nel 2003, per una serie di coincidenze, mi trovavo all’aeroporto di Fiumicino. I telegiornali non parlavano d’altro. Anzi, si addentravano in ipotesi di fuga. Qualcuno ventilava l’ipotesi che fosse già in Sudamerica. L’uomo più ricercato d’Italia invece era nella sala di Freccia Alata che – insieme a una persona che non riuscii a identificare – neppure lo guardava il tg. Sembrava quasi divertito, convinto di farla franca come già probabilmente era riuscito a fare altre volte. La strafottenza che solo gli uomini di potere riescono ad avere. Noi, comuni mortali, saremmo stati schiantati, colpevoli o meno, da quella taglia che gli mettevano sulla testa i magistrati. Lui sorseggiava caffè, e da lì a breve sarebbe salito su un aereo di linea. La sera si consegnò.
Di giorni di carcere ne fece pochi, pochissimi. E’ tornato nel rifugio dorato della sua Parma, in una villa che chi vive con le preoccupazioni del prezzo della verdura e dell’articolo 18 non hanno neppure la forza di sognare.
E’ stato a spasso nel cortile della sua dimora per anni, tra campi da tennis e piscina, opere d’arte e camerieri. Probabilmente la ricchezza accumulata glielo permetteva. Con la sentenza della Cassazione ha capito, forse, che la sua vita è entrata a pieno diritto – come è giusto che sia – tra i comuni mortali. Una mortalità che però non deve, non può, arrivare dal carcere. Se le sue condizioni sono incompatibili con la detenzione è giusto che Tanzi esca. Lo dice il codice di procedura penale. Nessuno vuole vederlo morire, non è con la morte che pagherà il debito con tutte le persone che ha messo in ginocchio. Non voglio credere, neppure per un attimo, di vivere in un Paese che usa la condanna alla pena capitale.