“Fra tutti i riti funebri che le creature di questo mondo hanno escogitato, ho sempre ammirato quella degli elefanti. Hanno una strana maniera di morire. Quando un elefante sente che è arrivata la sua ora, si allontana dal branco. Ma non va da solo. Sceglie un compagno che vada con lui. E partono”. È la pagina di un libro, amaro e vivo: Tristano muore (Feltrinelli), dove il nome del protagonista non è un omaggio al mito, ma al Tristano delle Operette leopardiane e al loro autore dolente.
“Buongiorno signora morte, sono arrivato”: Antonio Tabucchi è partito di domenica, con il passo dell’elefante incerto. Pochissimi, anche tra gli amici, sapevano del suo male: “La morte è un fatto privato, molto privato, e non ci può entrare nessuno oltre a chi sta morendo”. La morte è una geografia personale. In un incontro a Mantova nel 2005, al Festival della letteratura, disse: il corpo resta sempre, fino all’ultimo quando è consunto. E anche il desiderio rimane: “È l’ultimo che se ne va”. Lui era un animale desiderante e appassionato, pieno di gioie e relative ombre. I sogni, i viaggi (tantissimi), le persone di cui ricordava tutto perché aveva il sentimento dell’altro. Se una volta gli avevi detto che tua madre stava poco bene, a distanza di mesi, non si dimenticava di chiedere “come sta la mamma”? Burbero e tenero. Poi, sopra tutto, c’erano i libri di cui parlava con una meraviglia mai sopita e cui aveva dedicato la vita.
Come professore – insegnava Lingua e letteratura portoghese – e come traduttore: con la moglie Maria José de Lancastre portò in Italia Fernando Pessoa, quando era ancora sconosciuto alle nostre latitudini. Lo incontrò, scrive Ernesto Ferrero su La Stampa, in stazione. Partendo da la Gare de Lyon, aveva trovato un libro. E dove poteva accadere, se non nell’adorata Parigi, questo amoroso convegno? Tutto il resto di Pessoa l’aveva imparato da Luciana Stegagno Picchio, sua maestra di letteratura portoghese. E poi arrivò la scrittura: Piazza d’Italia, il primo lavoro, uscì nel 1975 da Bompiani. Nel ’78 pubblicò Il piccolo naviglio e nell’ 85 il primo romanzo di successo, Notturno indiano (per cui riceverà in Francia il Prix Médicis). La fama arrivò nel 1994, con Sostiene Pereira, storia di una “educazione sentimentale” alla libertà.
Il giornalista che osò sfidare il regime salazarista divenne un simbolo mondiale della lotta ai regimi, la prova che qualunque uomo, anche un mite cronista, può ribellarsi alle ingiustizie. Quell’anno, in Italia, sarebbe rimasto famoso per la “discesa in campo” di Berlusconi. Tabucchi capì al volo cosa avrebbe significato per il nostro povero Paese che è sempre stato anche il suo, nonostante la lontananza. Si è scritto molto in questi due tristi giorni delle sue “altre” patrie – il Portogallo e la Francia – meno del suo visceralissimo legame con l’Italia. Nel 2009 uscì Il tempo invecchia in fretta, un titolo che è quasi un presagio: il neonato Fatto Quotidiano pubblicò uno dei racconti, “Fra generali” sul primo numero in edicola. Ci sarebbe stato molte altre volte su quella prima pagina: non conosceva la rassegnazione. E non aveva ansie di protagonismo. Rifiutava moltissimi inviti e sollecitazioni, ma odiava l’idea di sottrarsi a quello che considerava un dovere, portare la sua testimonianza d’intellettuale (parola che, ha scritto Marco Travaglio, non gli sarebbe piaciuta).
Non voleva girare la testa: il rimpianto di aver taciuto, mai. I nostri signori della politica non smettevano di stupirlo. Spesso telefonava, incredulo e amareggiato, in redazione: “Ma veramente Napolitano firmerà il decreto salva liste?”. Voleva sapere tutto e di solito in capo a due giorni arrivava una email: “Posso mandarvi un pezzo?”. Qualche volta era arrabbiato: detestava la Lega per le politiche razziste, l’Unione europea per quella che lui chiamava una “mancata e colpevole vigilanza”. Su Le Figarò aveva scritto: “Un uomo non bianco (ne basta uno) avrà forse un giorno un coltello per difendere il proprio corpo e la propria dignità. E lo utilizzerà. E capiterà come a Soweto. Non è ciò che mi auguro. È al contrario ciò che mi preoccupa, che mi allarma, che mi fa paura, e che mi abbatte”. L’intervento è datato 30 dicembre 2009: quasi un vaticinio di quello che sarebbe accaduto, una settimana dopo, a Rosarno. Antonio Tabucchi era, caparbiamente, tutto questo e moltissimo altro.
“Le persone non muoiono, restano solo incantate” si legge nel necrologio di un’amica su Repubblica. Sono parole del professore. Vogliamo credergli: questo incanto lo tiene vicino a noi che, per caso e per fortuna, l’abbiamo conosciuto. E a tutti quelli che hanno avuto il privilegio di incrociare le sue parole.
Il Fatto Quotidiano, 27 Marzo 2012