Credevo che la letteratura mettesse gli uomini e le donne che, scrivendo, la servivano, al di sopra dei battibecchi terrestri. Ho capito che non era così. Credevo che la morte creasse imbarazzo ai polemisti, spegnesse le tifoserie, se non per rispetto, almeno per buon gusto. Non è stato così, in occasione della morte di Antonio Tabucchi.
Il Giornale ha sostenuto che: “I critici non potevano criticarlo”, “raccontò solo il Pessoa che faceva comodo alla sinistra dei salotti”, i suoi romanzi non erano granché, la faziosità faceva velo alla sua intelligenza, disprezzava la gente comune. Ne avrebbe sorriso, Antonio, di quelle due pagine così disciplinatamente maligne. Così prevedibili. Ne avrebbe sorriso come sapeva sorridere lui, senza sguarnire, neppure per un attimo, la dolorosa lucidità dello sguardo. È vero, non amava certi italiani, quelli “che quando si sposano vanno in vacanza alle Seychelles e quando tornano sul loro volto non c’è scritto niente… sono solo abbronzati”, quelli che votano Berlusconi sperando di non dover più pagare le tasse, quelli che digeriscono disonestà e diseguaglianze difesi dall’armatura della loro indifferenza.
Non li amava, ma gli mettevano addosso quella tristezza carica di compassione che rendeva il suo sorriso così intenso e il suo stile (che definirei “della passione controllata”), così prezioso ed efficace. Mi era terribilmente caro, Antonio Tabucchi. Mi mancherà molto.
Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2012