Di Toti affascina la commovente refrattarietà alle telecamere: fisico da rugbista dismesso, movenze da cartone animato, sopracciglia che si alzano e abbassano come un attore di telenovelas brasiliane alle prese con una scena teoricamente drammatica. Toti si è gradualmente avvicinato alla forma “giornalistica” più cara ai berluscones: il pistolotto pseudo-garantista. Se Minzolini affrontava il comizietto esibendo la zeppola delle grandi occasioni, da navigato ex caratterista di Nanni Moretti, Toti recita i salmi con l’impeto di una triglia afflitta. Il primo a non sembrare convinto di ciò che dice è lui: se esortasse il pubblico ad andare a Messa, ci sarebbero più mangiapreti in Italia che tra le frequentazioni di Bakunin. Su Youtube giganteggiano gli strali con cui attaccò i giudici che condannarono Marcello Dell’Utri e, poi, i sovversivi che gioirono per le dimissioni di Berlusconi. Ventinove giugno 2010, 11 novembre 2011: le date delle (per ora) più celebri omelie di Toti, uno che la stampella l’ha scagliata ma gli è forse caduta in testa. Da qui lo sguardo surreale, tra il vitreo e lo sgomento, e le pause a caso durante la lettura. Sospiri confusi, respiri affannosi, un che perenne di ansiogeno. Dovrebbe assurgere a rampognatore, ricorda al massimo un Mastrota che incensa materassi scomodi. Se Fede ostentava la sua parzialità, nel tentativo vano di risultare credibile come comico di se stesso, Toti è il gregario che pedala per interposta persona e senza scattare mai. Il suo è un giornalismo senza salite né discese. Solo pianure, su cui stazionare placidi. E sempre a favor di vento.
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Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2012