Mi sembra che ci stiamo girando attorno senza però mettere a fuoco lo scomodo scenario che ci sta di fronte: la festa dei diritti è finita! E’ stato bello in questi anni fare a gara per intestarsi le cause più nobili sul piano, in particolare, dei diritti in materia di lavoro, di assistenza e di previdenza, ma i diritti non vivono di vita propria rispetto all’economia di un Paese e se non possono più essere sostenuti finanziariamente attraverso emissione di moneta propria, svalutazioni del cambio, emissione di titoli di debito o nuove tasse, i diritti semplicemente vengono meno mentre si riafferma per tutti il dovere di sopravvivere come Paese, di trovare e condividere responsabilmente una via d’uscita dalla crisi.

“I diritti dei lavoratori non si toccano” è solo uno slogan dei bei tempi andati: in tutte le situazioni di emergenza si fanno delle scelte dure e dei sacrifici. Come in guerra. Stiamo vivendo il più lungo periodo di pace della nostra storia, tra qualche anno non avremo più un solo testimone oculare delle violenze e delle nefandezze che si commettono in ogni guerra, ma non certo perchè siamo divenuti pacifici: sono solo cambiate le modalità con cui si può acquisire potere e influenza attraverso la competizione economica tra i Paesi il cui patrimonio industriale e finanziario rappresenta oggi il vero arsenale bellico, più delle testate nucleari. La Germania che ha perso due guerre mondiali ha vinto nella pace. Le tragedie personali, l’impoverimento e persino i suicidi cui assistiamo, affranti e impotenti oggigiorno, fanno parte dei danni collaterali, delle vittime civili di questo scontro nel quale non possiamo dichiararci “obiettori di coscienza”.

“Com’è bello sentirsi buoni con i soldi degli italiani” cantava Gaber, fustigando con il suo sarcasmo l’imbroglio che ci hanno servito in questi decenni i politici. Già, perchè se esiste un complotto e dei complottisti con cui prendersela oggi, costoro non sono tanto i trader della speculazione borsistica quanto i politici che hanno costruito il proprio consenso elettorale attraverso i vari stipendifici pubblici, l’inefficienza di una elefantiaca macchina burocratica, il consolidamento -in logica di scambio- di anacronistici privilegi corporativi, l’impunità dell’evasione fiscale, della corruzione e financo delle attività criminali organizzate.

Così come ciascuno di noi, nel suo piccolo, è speculatore quando investa i suoi risparmi volendo sfruttare situazioni contingenti di mercato e non in una prospettiva di lungo termine (con i Btp, negli ultimi tre mesi, si sono potuti conseguire guadagni del 40% e oltre!), gli operatori professionali del mercato finanziario hanno l’istinto delle belve: fiutano la preda in difficoltà e non la mollano. Chi ha la responsabilità di aver fatto di una potenza industriale, nel 1992 come oggi, la facile preda della speculazione finanziaria? Sono forse state le banche internazionali a portare al 120% del Pil il debito pubblico italiano? No, il debito pubblico ha un solo padre, la classe politica degli ultimi decenni, ma chi ha selezionato questa classe politica non è meno responsabile, sia se avesse contribuito a mandarla al governo che all’opposizione e persino se si fosse astenuto!

Bisogna essere onesti: è convenuto a -quasi- tutti perchè il consociativismo è stato imperante. Pensiamoci! C’è chi ha avuto un posto di lavoro nel settore pubblico che non ne valeva il costo in termini di beneficio pubblico o perchè in eccedenza al fabbisogno effettivo, chi ha avuto una pensione -o altra forma di assistenza- indipendentemente dalla contribuzione sostenuta, chi ha ricevuto incarichi professionali che nessun privato avrebbe mai commissionato nè, tantomeno, pagato alle medesime condizioni, chi è stato fornitore o appaltatore di opere e servizi pubblici spesso inutili, ma sempre sovrapagati (perchè il pubblico paga la pubblicità più del privato: non dovrebbe essere il contrario?), chi ha ottenuto assistenza sanitaria e farmaci pur non pagando imposte o ticket, chi ha ricevuto un titolo di studio di valore legale indipendentemente dalla qualità della sua preparazione o della reputazione dell’Università che gliel’ha rilasciato, chi da consigliere o presidente di Ente locale, assessore, parlamentare e persino presidente della Camera o del Senato ha ottenuto forme di rendita vitalizia e altri privilegi ritenuti intoccabili, chi ha ricevuto contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati, protezione contro la concorrenza e contro l’ingresso di concorrenti spaventati dalla burocrazia e dalla inaffidabilità della giustizia, chi fa informazione sostenuto più dal contributo pubblico all’editoria che dai lettori, ecc.

“Goditela finchè dura, perchè non dura”: deve essere stato questo l’inconfessabile e implicito passaparola che ha incentivato questa follia collettiva. Gli incentivi reali che muovono il comportamento dei politici, al di là della retorica, devono essere oggettivamente in contrasto con gli interessi del Paese e del bene comune e chi dovesse invece inventarsi degli incentivi ad essi correlati potrebbe ben essere dichiarato salvatore della Patria.

Vogliamo aggrapparci allora, per interesse personale, inerzia o forma mentis consolidata, ad una concezione dei diritti divenuta insostenibile o vogliamo davvero percorrere la strada virtuosa che, non oggi, ma forse domani, potrà consentirci di riaffermarli in maniera più responsabile? Tocca all’impresa creare ricchezza vera: alla politica tocca, al massimo, redistribuirla. Il 99,9% delle imprese in Italia (dati: Eurostat 2011) sono piccole e medie (Pmi), garantiscono però l’81,4% dell’occupazione privata (contro il 66,9% dei Paesi Eu27) e il 71,3% del valore aggiunto (contro 58,4% di Eu27), il resto è appannaggio delle grandi imprese. Liberiamo l’impresa dalla burocrazia e dai lacci di una legislazione “buonista con i soldi degli italiani” che producono, tagliamo lo spreco, l’inefficiente e il superfluo anche nel pubblico impiego e nelle partecipate pubbliche, colpiamo l’evasione, la corruzione e il malaffare, tagliamo le tasse e sarà il sistema imprenditoriale, risorgendo, a dare lavoro e ad assicurare la sostenibilità dei diritti.

La Grecia non ha il nostro Dna imprenditoriale, ma il suo presente potrebbe diventare il nostro futuro da incubo se non cambiamo decisamente rotta.

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