Prepotente, ribelle, attaccabrighe. Ha giocato con Pelè e Beckenbauer. Odiato, latitante, avventuriero. Ha segnato con Peppiniello Massa e Paolo Franzoni. Esce di scena trovando la data sul calendario, scegliendo il pesce d’aprile, per sfotterci. Unico, pirandelliano, camaleontico, ci ha irriso a modo suo sine die, fino alla fine, con ghigno beffardo, come quel dito puntato verso la Curva Sud romanista, le corna esibite allo Stadio S. Paolo e il ‘vaffanculo’ a Valcareggi in diretta tv, Italia mondiali di Germania Ovest.
Però tranquilli, l’anticonformista di Pontecimato (Carrara) scherza ancora, ci prende in giro. Come quando nel 1975 fece infuriare Pier Paolo Pasolini sul Guerin Sportivo: “Chinaglia in quella Nazionale era perfettamente inutile: una mezza punta goffa e delirante. E per di più, Chinaglia non fa altro che mettere malumore agli altri”. Aveva ragione Rino Gaetano, “Mio fratello è figlio unico”, perché il legame di sangue coi suoi tifosi è indissolubile, oltre anagrafe e morte, da “Il Vangelo secondo Chinaglia”, come cantavano gli Squallor in lode al 33° nella graduatoria Iffhs, federazione internazionale di storia e statistica sui big del football, che lo premia per 243 gol in 253 partite, 8 titoli di capocannoniere, come un nuovo Garibaldi risorgimentale, eroe dei due mondi con scudetto, Coppa delle Alpi e Major League sul petto.
Pistole e palloni, almirantiano dichiarato e democristiano mancato. Rissoso, buono e guascone con un’aneddotica sterminata, sul campo e fuori. Presidente pure a Foggia e Lanciano, figlio prediletto di Tommaso Maestrelli. Però calmi, non disperate, perché Giorgio Chinaglia non è morto, Long John è immortale. Dal rugby del Lady Mary’s allo Swansea Town (League Division Two) dall’Internapoli (Serie C, girone C) al Villa S. Sebastiano (Tagliacozzo, Seconda Categoria), fino alla Contea di Collier, città di Naples in Florida, dall’altra parte dell’oceano, l’american dream per sottrarsi al mandato di cattura europeo e all’ammenda Consob di 4,2 milioni di euro. Chinaglia è una bandiera, non si ammaina. “Io sono la Lazio”, ripeteva orgoglioso e fiero. E aveva ragione, odio e amore, come l’epigramma di Catullo, sintesi estrema di una simbiosi infinita.
Nel Walhalla del Calcio non si muore, si vive tra le leggende del Grande Torino, del Manchester United sparito nel 1958, in mezzo a Silvio Piola, John Charles e George Best. Toscano emigrato tra Galles e New York Cosmos, speaker radiofonico per SiriusXM con 35 milioni di abbonati, in 65 anni Chinaglia ha fatto tutto e disfatto esattamente proprio il contrario di tutto, da moto perpetuo, inarrestabile, genio e sregolatezza. Sempre a modo suo, con quell’esuberanza che l’ha contraddistinto, svettando tra primati, disavventure, fallimenti, vittorie, inganni e l’esaltazione del popolo laziale. Il guerriero della Curva Nord, il sogno dell’Olimpico, l’incubo e il fuggiasco, telecronista e opinionista televisivo.
Oggi per lui aprono Tg nazionali e prime pagine dei giornali. ‘Coccodrilli’ dovunque, anche sui siti internet e nei social network. Ci manca solo che cinguettii pure Facebook. Roma piange, piange la storia della Lazio e i laziali. Lacrime vere, sincere, nonostante tutto. Lo salutano David Thorne (ambasciatore Usa) e il mondo sportivo, da Gigi Riva a Dino Zoff, da Sandro Mazzola a Fabio Capello (‘era un amico vero’), con cui maramaldeggiando profanò Wembley nel lontano 1973, per la rivincita dei camerieri italiani sui tabloid, a 3 minuti dalla fine del tempo regolamentare. Ma non finisce qui, e il gobbo lo sa. ‘I’m Football Crazy’, cantava in un film di Lando Buzzanca. Vita spericolata, flashback, Giorgio Chinaglia non è morto.
“Un libro davvero singolare e affascinante – scrive Antonio Ghirelli nella prefazione di ‘Pistole e palloni, gli anni Settanta nel racconto della Lazio campione d’Italia’ (c) di Guy Chiappaventi – il capitolo più riuscito, più romanzesco, è senza ombra di dubbio quello su Giorgio Chinaglia”.
Destino crudele, ieri s’è spento anche Antonio Ghirelli, maestro di giornalismo, stakanovista e rivoluzionario dell’informazione. Ma non s’è spenta la luce di Chinaglia, perché lui non può morire. Lui c’è. Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia. Evviva Long John.