Nessuno paga nessuno. È un ordine, un disordine o un errore clamoroso? I fornitori non vengono pagati dallo Stato, le aziende non pagano le aziende, tutte le ragioni, legittime o illegittime, necessarie o illegali, sono buone per non pagare i lavoratori. Molte persone, garantite fino a un momento fa da un buon sistema pubblico di previdenza, che non risulta abolito, restano senza lavoro e senza pensione, in un limbo che dà le vertigini. E porta brutti consigli, come in un incubo. Compare un fenomeno già conosciuto nel mondo industriale avanzato, ma ignoto finora in Italia, il suicidio da lavoro. È un buco nero nel quale scivolano soprattutto coloro che avevano trasformato un piccolo lavoro in una piccola impresa, e per un po’ avevano creduto di avercela fatta. Al bordo del coma o della bara si vedono famiglie vere, mogli-compagne, figli travolti, come se tutti fossero saltati su una mina.
Non avevamo calcolato, nel dare il benvenuto a un dignitoso “dopo Berlusconi”, che interi campi minati erano stati lasciati da due decenni di diretta o indiretta egemonia di tre governi berlusconiani corrotti e inetti e per giunta molto attivi come guastatori della Repubblica. E non avevamo previsto, perché anche il legittimo senso di festa fa i suoi danni, il tracciato inedito e sorprendente della nuova ferrovia Monti-Fornero. Corre parallela al Paese, ma non dentro il Paese. La sua locomotiva lancia fischi lontani che non segnalano nulla a noi. Sono fischi del treno per chi sta sul treno. I cittadini sanno (pensano) che il treno venga da altrove e vada altrove. A noi lascia solo il rumore del pesante passaggio. Dopo un po’, però, notano delle coincidenze inquietanti. A ogni fischio (o annuncio) segue la perdita di qualcosa, un po’ di pensione o tutta la pensione, un po’ di lavoro o tutto il lavoro, un po ‘ di sicurezza, o tutta la sicurezza. Sacrifici strani (perché totalmente imprevisti) in cambio di niente, o questa è la percezione. La percezione conta. È così forte che alcuni decidono addirittura di farla finita. Ma bisogna stare attenti al grado di disperazione che si cova. I “tecnici” sembrano non avere calcolato che, fra malintesi e vuoto di contatti, cittadini e partiti politici restano legati tra loro dal continuare a risiedere sullo stesso luogo, dunque sono vicini, persino quando i rapporti si fanno conflittuali. In altre parole, sai sempre dove andare per farti sentire, o per rovesciare il tavolo. Invece i “tecnici” non li trova nessuno, perché non sono di questa terra (nel senso di terra della politica e della protesta). Magari è vero che, nel loro breve passaggio riusciranno a riparare qualcuno dei danni spaventosi provocati alla Repubblica dai suoi precedenti governanti e relativa, incosciente maggioranza. Ma persino in questo caso fortunato, nel quale intensamente continuiamo a sperare, è impossibile non vedere alcuni fatti che sono, o sembrano a molti di noi, e a molti cittadini, errori strani, come quando Monti dice: “Noi godiamo di consenso, i partiti no”. La frase è come una formula magica, e lo ha già sperimentato il predecessore, che spiace persino ricordare. Nell’istante in cui dici che sei il preferito, rompi l’incanto (se c’è), e smetti di esserlo.
Ma pesa anche l’infelice idea di impegnare tutto il peso di un governo così nuovo, sulla cosiddetta “riforma del lavoro”, dunque gettandosi tutti insieme, con forza (governo, padronato, vecchia maggioranza letale, destra economica, commentatori opportunisti) sul lato debole (il lavoro) della precaria vita industriale italiana. Si è preferito – senza spiegare – il vecchio percorso di punire il lavoro, restringendo il più possibile (come se fossero la causa della gravissima crisi finanziaria che il mondo industriale sta attraversando), alcune garanzie importanti per i lavoratori, conquistate faticosamente attraverso i decenni. Si è giunti a un punto di superstiziosa repulsione verso l’articolo 18 facendone una sorta di Eluana Englaro della “riforma del lavoro”. Tutto ciò nel Paese che avrebbe urgente necessità di una riforma dell’impresa, dal diritto al credito al dovere di trasparenza di ogni decisione (esempio: delocalizzazione e improvvise chiusure di fabbriche) che tocca la comunità in cui vive, e di cui vive, l’impresa. Il percorso si complica con un’altra frase inadatta a stabilire un contatto con i cittadini: “Se il Paese non è pronto…” segue la minaccia che è ingiusta. Colpisce la fatica, il malessere ma anche l’incomprensione. Poiché l’incomprensione è reciproca, tocca alla parte forte dire, con cautela e pazienza, prima che le ondate di suicidio si espandano: “Forse non mi sono spiegato”. Posso proporlo ai professori? Posso chiedere loro di spiegare bene, anche a se stessi, ciò che stanno facendo e che intendono fare?
Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2012