Una strada che costeggia il mare, una mattinata di primavera in Sicilia, una curva e un’auto che sorpassa ad alta velocità. Poi un rumore sordo, fortissimo, di quelli che fermano il tempo per alcuni minuti.
È il 2 aprile del 1985 e una giovane madre, Barbara Rizzo, sta accompagnando a scuola i suoi due gemellini di sei anni, Giuseppe e Salvatore Asta. Ogni mattina prende quella strada che da Valderice arriva a Trapani costeggiando il lungomare. È una bella mattinata, il sole brilla su quegli spicchi di mare azzurro e Barbara procede come sempre sulla sua Volkswagen Scirocco: i bambini giocano sul sedile posteriore e lei può godersi quella breve passeggiata guidando a velocità sostenuta.
C’è un’altra auto che quella mattina percorre lo stesso tratto di strada. È un Alfa 132 blindata che morde l’asfalto. La segue a ruota una Fiat Ritmo che tira le marce per stargli dietro: i passeggeri delle due auto infatti non hanno nessuna intenzione di godersi quel magnifico panorama. Devono percorrere quella strada in fretta, devono arrivare al Palazzo di Giustizia di Trapani il prima possibile; a bordo infatti hanno un quarantenne con i baffi e gli occhiali: si chiama Carlo Palermo, è campano ma viene da Trento, ed è arrivato in Sicilia da meno di 50 giorni per fare il suo lavoro, il magistrato.
Da quelle parti, dalle parti di Trapani, fare il magistrato può essere pericoloso. Due anni prima, proprio a Valderice, il magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto era stato ammazzato davanti casa proprio quando stava per andare a lavorare in Toscana. Lo sapevano tutti che quell’omicidio era un affare di mafia, ma nessuno lo diceva apertamente per il semplice fatto che a Trapani ufficialmente la mafia non esiste. E se la mafia a Trapani non esiste come si fa a dire che ammazza qualcuno? Ciaccio Montalto era morto per questioni di donne si era detto. O forse di gioco d’azzardo e di debiti. Tutto ma non la mafia.
L’autista dell’Alfa 132 però lo sa benissimo che a Trapani non solo la mafia esiste, ma gestisce i punti nevralgici del potere cittadino. E sa benissimo che il suo passeggero, Carlo Palermo, è uno che rischia di finire come Ciaccio Montalto. Palermo non è arrivato a Trapani per caso: a Trento ha indagato su traffici di armi e droga, sulla connivenza tra il Psi di Bettino Craxi e la criminalità organizzata, e spesso le sue inchieste si sono incrociate proprio con quelle di Ciaccio Montaldo.
È proprio per evitare d’imbattersi in qualche commando mafioso (che ufficialmente non dovrebbe esistere) che l’autista dell’Alfa accelera e all’altezza della curva di Pizzolungo supera la Volkswagen con Barbara e i gemellini. Solo che quel sorpasso l’Alfa 132 non avrà mai il tempo di completarlo: viene bloccata da un rumore sordo e fortissimo, un istante infinito di morte e terrore. Quando le lancette ricominceranno a correre di quella Volkswagen Scirocco si saranno quasi perse le tracce. Ancora meno rimarrà di Barbara. Giuseppe e Salvatore Asta, investiti dall’esplosione di un’altra auto, la quarta di questa storia, parcheggiata sul ciglio di quella curva dopo essere stata imbottita di tritolo. Doveva spazzare via il giudice Carlo Palermo, doveva farlo fuori, a pezzetti. Solo che in quell’ esecuzione si sono infilati per caso Barbara, Giuseppe e Salvatore.
Chi ha assistito a quella scena e l’ha trasformata in una strage ha voluto provare a far fuori il giudice nonostante quella Volkswagen inaspettata. Che invece ha fatto da scudo tra quella bomba a quattro ruote parcheggiata in curva e l’Alfa 132 di Palermo. Di Barbara, Giuseppe e Salvatore dopo quell’istante infinito rimarrà ben poco: una macchia rossa su un muro di una casa, qualche brandello a metri di distanza e una scarpa da bambino.
Tra i primi soccorritori del giudice Palermo c’era anche il padre e marito Nunzio Asta: non si è accorto che in quell’inferno c’era anche la sua famiglia e verrà avvisato della tragedia soltanto qualche ora più tardi, da un poliziotto che al telefono gli chiede il numero di targa di quella Volkswagen guidata dalla moglie. Nunzio morirà di crepacuore nel 1993.
Post Scriptum
Per la strage di Pizzolungo sono stati condannati i boss Totò Riina, Vincenzo Virga, Balduccio di Maggio e Nino Madonia. L’esplosivo che fece a pezzetti Barbara, Giuseppe e Salvatore dicono sia dello stesso tipo usato nella strage del Rapido 904, che il 23 dicembre 1984 fece 17 vittime. Una eccidio inspiegabile di cui è stato riconosciuto colpevole lo stesso Riina. E non è forse un caso che un altro uomo che collaborò al botto di Pizzolungo, Gioacchino Calabrò, sia lo stesso “esperto” d’esplosivo che diede il suo contributo alle stragi del 1993.
Oggi Giuseppe e Salvatore Asta avrebbero 33 anni. La loro madre appena 57. A mantenerne viva la memoria è rimasta la sorella Margherita Asta, 11 anni all’ epoca della strage.
Nel 2008 ai due gemelli è stata finalmente intitolata la scuola di Erice. L’anno dopo qualcuno ha deciso di protestare dando alle fiamme l’edificio.
Se ai tempi di Ciaccio Montalto se ne negava l’esistenza, adesso non solo siamo certi che la mafia esiste, ma possiamo anche dire che spesso è stata un service che spara su input di livello superiore.