Se permettete, questa volta, esco dal mio recinto televisivo e parlo di cinema, del Romanzo di una strage di Giordana. D’altronde me lo consente il fatto che Fofi lo ha definito spregiativamente “telefilm”. Però bisognerebbe smetterla di usare la tv come categoria negativa. Anche La presa del potere di Luigi XIV era tecnicamente un telefilm. Il che non gli impediva di essere un capolavoro. Che il film di Giordna non è. Anzi, come spesso succede a Giordana, è pieno di difetti e di imprecisioni di contenuto e di scrittura. Per esempio: si dimentica per strada la vicenda di Valpreda che, per la parte più larga dell’opinione pubblica, fu il simbolo dell’ingiustizia; trascura il ruolo della stampa nella ricerca della verità o almeno nell’insinuare il dubbio della grande menzogna (c’è Nozza, un po’ di Cederna, ma manca Pansa); cede spesso al macchiettismo, alla noschesizzazione – come dice il mio amico Tonino Repetto – nella rappresentazione degli anarchici e dei ministri.
Ma detto questo ed entrando nel dibattito che ha infiammato gli animi, cioè quanto dice Giordana della verità (con la V maiuscola si chiede Ezio Mauro), cosa riesce a far sapere ai giovani, ventenni, trentenni ma anche quarantenni, io su queste questioni sto dalla parte di Giordana. Che, semplificando e finzionalizzando, dice le cose essenziali e le dice bene. Non importa quante fossero le bombe, importa che si narri, con il dovuto tono e con una profonda voglia di verità, una delle tragedie vissute dalla democrazia italiana, attribuendo la giusta parte ai vari attori. E il film narra di anarchici velleitari e ingenui ma mai stragisti e onesti fino in fondo (“non ho paura della verità, io” dice Licia Pinelli in tribunale, in una scena che vale da sola il biglietto del film); di politici, militari e funzionari dello stato divisi, ambigui, collusi con l’eversione neofascista e, in certi casi, impresentabili (c’è qualche trentenne che sa che a reggere la questura di Milano in quegli anni e anche dopo ci fu un signore che il presidente Pertini non poteva incontrare nelle sue visite ufficiali, perché si rifiutava di stringere la mano al suo carceriere di Ventotene?); narra di magistrati rigorosi e di un suicidio a cui nessuno può credere e a cui non crede neppure il commissario.
Ecco, il commissario, il personaggio che più temevo vista l’aria di revisionismi interessati e la voglia di beatificazioni che circola. E invece direi che quest’aria non ha travolto Giordana e il suo (e di Mastrandrea) commissario Calabresi, che sarà anche bello, colto, cortese, affettuoso e tormentato, ma non riesce mai a tradurre il suo tormento in una denuncia dell’inganno ordito ai danni degli italiani. Vi pare che non sia sufficiente far conoscere a un ventenne questa verità (con o senza maiuscola)?