160 chilometri a nord di Vientiane. Lungo la Statale 13. Partiamo presto. Saliamo su un grosso autobus sgangherato coi sedili in legno, sacchi di riso, decine di contadini laotiani che urlano e fumano sigarette puzzolenti. L’autobus dei polli. Ci lasciamo alle spalle la piccola Vang Vieng, adagiata su un’ansa del fiume Nam Song. Ieri sera colonne di autocarri pieni di militari sfrecciavano per la strada. Qualcuno ci indicava e rideva.

La natura è magnifica: montagne ricoperte di mille strati diversi di verde, un cielo azzurro che diventa nuvolo in un secondo e poi torna azzurro. I nostri compagni di viaggio sono simpatici, la signora seduta di fronte a noi continua a sorriderci e con occhi imploranti ci fa capire di fare attenzione poiché i nostri piedi sono appoggiati sui suoi sacchi di riso.

Fino a Bang Jiang tutto bene, poi arriva il vero, unico, indistinguibile acquazzone tropicale. L’autobus fa la doccia e procede a fatica lungo i tornanti. Poi succede qualcosa, l’autista rallenta, non capiamo. I nostri vicini dicono “Hmong, Hmong”. L’autobus procede lentamente in mezzo alla vegetazione. Tommy estrae la macchina fotografica ma la signora del riso, con i suoi occhi parlanti, gli fa capire che è meglio se la rimette via. Attendiamo.

I Hmong costituiscono una delle popolazioni indigene più numerose della regione tra la Thailandia, il Laos, il Vietnam e la Cina. In Cina vivono circa nove milioni di Hmong, che là si chiamano Miao. Nel Laos costituiscono uno dei gruppi etnici maggiori della popolazione montana, che a sua volta costituisce più della metà della popolazione complessiva. Dei 5,3 milioni di cittadini della Repubblica Popolare Democratica del Laos circa l’8% sono Hmong. A partire dagli anni ’60 i Hmong sono stati sistematicamente assoldati dai servizi segreti USA, la CIA, per combattere contro il movimento Pathet Lao e impedirgli la presa di potere. Fino a 40.000 Hmong sono stati per certi periodi nel libro paga della CIA, ma hanno pagato un caro prezzo per questa alleanza. Fino a metà degli anni ’70 almeno 30.000 Hmong sono morti durante i continui combattimenti con il Pathet Lao.

Le forze di sicurezza laotiane continuano a cercare gli ultimi Hmong nei loro nascondigli e a “spezzare ogni forma di resistenza”. I Hmong nascosti nella foresta però non sono più i combattenti di ieri, ma sono per la maggior parte donne, bambini e appartenenti a una generazione che non ha mai partecipato direttamente ai combattimenti degli anni passati. Per non essere scoperti dai soldati, i Hmong che spesso vivono nella foresta da oltre trent’anni, non possono né coltivare qualcosa né accendere fuochi. Si nutrono esclusivamente di piante e radici. A loro manca tutto, dal cibo ai medicinali. Nell’impossibilità di curarsi le ferite si trovano spesso costretti a amputarsi parti del corpo. Molti Hmong muoiono di fame, di affaticamento e di malattia.

E le forze di sicurezza laotiane continuano a dargli la caccia. E’ una guerra spietata. Una guerra a cui assistiamo. I militari sono immobili sotto la pioggia, i mitragliatori in spalla. Fanno fermare l’autobus, controllano i documenti dei laotiani. Poco distante, sul bordo della strada, la carcassa di un pullman bruciato. Scopriremo più tardi che è opera dei guerriglieri Hmong, che anche se poco numerosi e affamati continuano la loro micro guerriglia. Sono scesi dalla montagna, bombe a mano e kalashnikov, hanno fatto fermare il pullman, hanno ammazzato gli occupanti (l’autista, i maestri e quattordici scolari) e poi hanno dato fuoco all’automezzo. Adesso guardiamo la carcassa bruciacchiata, un militare fa cenno di ripartire. Fra quelle montagne, da qualche parte, ci sono donne amputate, malnutrite e bambini con lo stomaco gonfio e poche speranze di arrivare all’età dell’adolescenza. Su quelle montagne, da qualche parte, ci sono anche assurdi guerriglieri che ogni tanto scendono a valle e massacrano senza pietà giovani scolari laotiani… un odio senza fine.

Luang Prabang è bellissima. Ancora relativamente poco toccata dalla globalizzazione, anche se in verità nei bar del centro è un vai e vieni di ragazzi anglosassoni con lo zaino firmato e l’indistinguibile maglietta della Beer Lao, Luang Prabang mantiene la sua aurea magica. Situata fra il malsano e possente Mekong e il Nam Khan, la città è suddivisa in piccoli agglomerati di case al cui centro sorgono tempi buddisti. Il Wat Xieng Thong ha cinquecento anni, il Wat Mai Suwannaphumaham qualcuno di meno, nel cortile del Wat Aham ci sono i banani secolari, se si sale sul colle di Phu Sì si può ammirare il Wat Thammonthayalan. Templi ovunque, stupa a forma di bulbo, di cocomero, di nocciola, monaci e monache, silenzio.

Al Talat Dala, nel cuore della città vecchia, mangiamo salsicce piccanti e beviamo caffè alla laotiana. Intorno a noi occhi montanari, liquidi e penetranti. Qualcuno ci offre sigarette, qualcuno vuole vedere i nostri libri. Il tramonto cade sul lato del Mekong. In lontananza un bufalo si butta in acqua.

Bloccati qui, in questa città incantata per colpa dell’odio senza fine, della guerriglia dimenticata, dell’incapacità di dialogare. Ripenso al pullman bruciato, ai bambini carbonizzati. Ripenso alle colonne di automezzi militari incontrati a Van Vieng. Il bufalo risale a riva e, languidamente, si stende sulla fanghiglia, ignaro, inconsapevole.

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