Marco Tullio Giordana ha il grande merito di raccontare decenni d’Italia e il piccolo difetto di rendere tutto un po’ troppo fumettistico e favolistico. Era accaduto con La meglio gioventù, è accaduto con Romanzo di una strage. Ezio Mauro, in un articolo molto bello, sostiene oggi su Repubblica che “non si può fare un romanzo su una ferita aperta nel Paese”. Adriano Sofri ha scritto un pamphlet (43 anni) che mette – a mio avviso giustamente – in discussione la tesi delle due bombe, una dimostrativa (probabilmente anarchica) e una atta a uccidere (proveniente dalla estrema destra veneta e coadiuvata da servizi segreti deviati e Cia).

Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, ricorda stamani a Sofri che nel pamphlet manca il chiarimento sul perché Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale e figura chiave (anche sulla Banda della Magliana), propose a Sofri nel 75-76 “un mazzetto di omicidi”. E perché Sofri attese il 2007, undici anni dopo la morte di D’Amato, per raccontarlo sul Foglio.
Travaglio aggiunge che due sentenze della Cassazione “hanno accertato oltre ogni ragionevole dubbio” che Sofri fu mandante con Pietrostefani dell’omicidio di Luigi Calabresi (1972), eseguito da Bompressi e Marino. Io i dubbi li ho ancora, non sulla “corresponsabilità morale” (ammessa da Sofri) ma su quella effettiva. Il pentimento tardivo, e le ricostruzioni balbettanti di Marino, non convincono.

Il punto, qui, è però chiedersi se Romanzo di una strage ha liceità artistica (sì), se era giusto farlo (sì) e se è fatto bene (ni). Delle molte critiche ricevute, pare surreale quella secondo cui Giordana avrebbe dimenticato il clima di odio alimentato dalla estrema sinistra nei confronti di Calabresi. Lo sostengono Mario Calabresi, figlio di Luigi, e Giampaolo Pansa, che ha polemizzato nuovamente con Giorgio Bocca (uno dei firmatari della Lettera aperta sul caso Pinelli). Il clima di odio, nel film, c’è. Eccome. Mentre Mario Calabresi ha ragione quando avverte una sensazione di “nebulosa” lasciata dal film. Su questo giornale, Gerardo D’Ambrosio – che nel ’75 ritenne inconsistente l’ipotesi di omicidio Pinelli, ascrivendola a un “malore attivo” – ha fatto notare che alcune certezze ci sono: su tutte, la colpevolezze delle frange fasciste venete.

La tesi delle due bombe, rilanciata da Paolo Cucchiarelli nel suo libro, convince meno. E dà al film un senso di “finale bipartisan” (per citare Curzio Maltese) che lo indebolisce. La seconda parte rischia l’agiografia di Luigi Calabresi, che fu sì vittima, ma in un primo momento corresponsabile della caccia alle streghe. E se è il cast è di pregio, non si capisce l’utilità del cameo di Luca Zingaretti o la prova disastrosa di Laura Chiatti.
Il film è invece bravo a restituire l’inadeguatezza della politica: il sudore di Rumor, la debolezza livida di Saragat, la retorica di Aldo Moro (uno strepitoso Fabrizio Gifuni). E la colpevolezza dello Stato: prefetti, questori (l’ex fascista Marcello Guida), servizi segreti. Dietro una folgorazione (le scoperte di Calabresi, che prima di morire si rese conto di avere puntato il bersaglio sbagliato: e forse quello vero si adoperò per fermarlo), un muro di gomma. Come per Ustica.

Romanzo di una strage è imperfetto ma meritorio. Coraggioso. Sembra incredibile quando mostra Pinelli regalare l’Antologia di Spoon River a Calabresi, ma accadde davvero (una risposta al dono di Calabresi nel Natale precedente, il ’68, Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli). Giuseppe Pinelli era così sereno che, in Questura, ci andò da solo. In motorino. Se davvero si trattò di “malore attivo”, fu qualcosa di assai simile a un omicidio di Stato: Pinelli era trattenuto da tre giorni (il limite massimo era due), non gli era concesso di dormire, fumava di continuo senza mangiare, era sottoposto a interrogatori sfibranti (condotti da troppe persone presenti nella stanza). Era stremato. Se poi il film è veritiero, Pinelli ebbe il “malore” dopo che Calabresi, sobillato dai superiori, compì il “saltafosso”: ovvero fece credere a Pinelli che Valpreda aveva confessato, per portarlo alla esasperazione.

Che ruolo ebbe il Principe Borghese? E la Cia? Giangiacomo Feltrinelli saltò in aria per un suo errore (come accertarono le BR) o fu suicidato? Calabresi era nella stanza quando Pinelli volò dal quarto piano (la sentenza di D’Ambrosio ha accertato di no, l’anarchico Valitutti presente nel corridoio ribadì di sì)? Perché Pinelli cadde in verticale, a piombo e senza tentare di proteggersi: era già morto? Che ruolo ebbe Antonio “Nino Il Fascista” Sottosanti, presunto sosia di Valpreda e infiltrato nel gruppo anarchico di Pinelli? E il giornalista di destra Guido Paglia? Quanto si avvicinò alla verità Camilla Cederna? Perché D’Amato alimentò l’odio contro Calabresi, alimentando dossier falsi sul suo addestramento Cia? Chi si servì degli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura?
Troppi dubbi. Che Marco Tullio Giordana ha avuto il merito di rilanciare.

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