Per me che allora avevo 18 anni, come per tanti altri che hanno l’età per ricordare, la visione di “Romanzo di una strage”, il film di Marco Tullio Giordana sulle bombe di piazza Fontana, ha avuto il sapore della proverbiale madeleine proustiana. Una madeleine amara, perché il ricordo vivido di quei giorni lontani si scontrava con la verità parziale, e a tratti totalmente negata, raccontata dal film.

Le due borse, i due scoppi, i due mandanti: gli anarchici utili idioti con la loro bombetta dimostrativa, i fascisti e i Servizi deviati con la bomba assassina. Falso e assurdo.

Sul film e le sue incongruenze storico-giudiziarie, la finisco qui, rimandando a quanto scritto sul Corriere della Sera da un testimone eccellente, il giornalista Corrado Stajano, che seguì dall’inizio i fatti e che la notte della morte di Pinelli era nell’ufficio del questore Marcello Guida, come racconta il film, con altri colleghi fra i quali Camilla Cederna. Rimando anche all’instant book di Adriano Sofri, volto in realtà a contestare minuziosamente non il film ma il libro al quale è in parte ispirato.

Sgombro anche il campo sul valore artistico e sull’utilità sociale dell’opera: ammetto che è fatto bene e che può aiutare chi non c’era, soprattutto i più giovani, a chiarirsi un po’, ma solo un po’, le idee su che cosa successe quel 12 dicembre 1969. Insomma, al prossimo sondaggio dovrebbero essere un po’ di meno i giovani che attribuiscono la strage alle Brigate rosse.

Mi preme, invece, soffermarmi sul clima dell’epoca, assente nel film. La verità che in “Romanzo di una strage” emerge solo alla fine, e cioè che le bombe avevano una sola matrice, la destra eversiva, per molti fu chiara fin dal giorno seguente. “Strage di stato” venne chiamata subito. E gridata nelle assemblee, nelle piazze, su alcuni giornali. E palese apparve il suo scopo: destabilizzare il Paese e favorire un colpo di stato.

Non c’è, nel film, questa presa di coscienza immediata e collettiva che, di fatto, rese impossibile il golpe. Così come non c’è la convinzione di molti, da subito, dell’assoluta estraneità degli anarchici all’attentato e di Pinelli in particolare. “Omicidio di stato” si disse allora della sua morte, e tale per me rimane, anche se una sentenza tardiva archiviò il suo volo dalla finestra della questura come conseguenza di un non meglio precisato “malore attivo”. Nessuno ha mai davv ero spiegato che cosa successe esattamente in quella stanza. Quello che è certo è che Pinelli non doveva trovarsi lì da 72 ore senza cibo né sonno, sottoposto a un interrogatorio ininterrotto e martellante.

Manca, nel film, la società civile che partecipò in massa ai funerali delle vittime della strage, che non credette alle verità propinate dalle fonti ufficiali, che affiancò e incoraggiò la ricerca dei veri mandanti e autori dell’attentato. La stessa che ancora oggi tiene in vita, insieme con un manipolo di giudici tenaci e coraggiosi, il processo per un’altra strage di Stato, quella avvenuta a Brescia, in Piazza della Loggia, cinque anni dopo, nel maggio del 1974.

Nelle lunghe, infinite indagini sulle due stragi ricorrono nomi e sigle. Nessuno, finora, è stato condannato. E sul banco degli imputati, oggi a Brescia, non c’è il principale indiziato: Delfo Zorzi, imputato anche per piazza Fontana ma riparato all’estero, in Giappone, da decenni.

L’ultima udienza del processo sarà il 10 aprile. Nessun film è, per ora, in programma.

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