“Finché non rubo io nella Lega, non ruba nessuno”. Di certo non si è ricordato questa sua frase del 1989, Umberto Bossi, quando ieri ha rassegnato le sue dimissioni. Eppure, quasi profeticamente, tutto era già scritto in questo Dna, in questa premonizione che oggi lo insegue come una sentenza. La Lega nata ululando contro “i ladroni di Roma”, “i pretacchioni un po’ manigoldi della diccì”, contro quel “furfante con i coglioni di Craxi”, non poteva che andare in cortocircuito sulla questione morale. Non è un giudizio garantista. Ma è l’unico giudizio possibile, con Bossi, visto che il meno garantista di tutti i politici italiani è stato proprio lui: “Sono tutti ladri – scriveva – la sentenza popolare è stata già emessa, poco importa l’esito dei processi. I politici dei partiti – aggiungeva – hanno subìto la condanna dell’opinione pubblica che è, come tutte le condanne popolari, sovente spietata, talvolta ingiusta con gli individui, ma spesso storicamente esatta e sempre – concludeva spietato – politicamente inappellabile”. È stato così anche ieri, così anche per lui. Dimissionato sommariamente da quel che resta della sua stessa storia.
Il Bossi che negli anni ruggenti tagliava le teste, infatti, non aveva mai dubbi: “Questa classe politica non verrà seppellita da una risata, come recitava uno slogan sessantottino, ma dal tintinnio delle manette. Conta poco sapere se si è arricchito personalmente o se ha preso soldi per il partito. Questo conta in sede penale – aggiungeva il leader del Carroccio – ma non cambia la sentenza politica che è di colpevolezza”. A rileggere ora i giudizi affilati che il padre della Lega aveva consegnato alla sua prima e unica autobiografia, ovvero al trittico di best sellers scritti a quattro mani con Daniele Vimercati per la Sperling & Kupfer nei primi anni novanta (esauritissimi e – non casualmente – mai ristampati) ci si rende conto immediatamente del perché la base del Carroccio ieri abbia ripudiato il suo mito: ”Quando scoppiano le rivoluzioni – diceva all’Ansa nel 1993 – i Re non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l’esilio”. Ebbene, ieri Bossi è salito sulla stessa ghigliottina che evocava. Una ghigliottina metaforica, ma dalla lama terribilmente affilata.
Alla stampa, nel 1993 diceva: “I giudici sono la cura, ma la guarigione è la Lega”. Adesso l’unica cura possibile sono le sue dimissioni. Bossi è un ex di se stesso, non è più il leader che ripeteva spavaldo: “Vengo dalla gavetta, sono un uomo di strada e viaggio in groppa come i miei avi, con la carne cruda tra il sedere e il cavallo”. Adesso è l’ultimo leader a sua insaputa, l’ultimo leader che ha visto piovere sulla sua famiglia “i denari di Roma”. A pensarci bene, solo ora, che esce dalla vita politica, Bossi può entrare finalmente nella sua vera dimensione, che è quella della commedia all’Italiana e del dramma farsesco, dell’impresa impossibile, del romanzo. Anzi: di un lunghissimo “Romanzo Padano”, visto che mentre la Lega rischia di essere travolta, l’unica cosa che Umberto Bossi consegnerà alla storia è il suo testamento creativo, l’almanacco delle sue visioni incarnate. La sua stessa fantasia, al Potere.
Bossi è stato il Philip Dick italiano, solo che invece di scrivere racconti, fantascientifici, ha creato un partito, fantascientifico. Chissà quanti noteranno, oggi, che la Lega è il più antico dei partiti italiani in Parlamento, il simbolo più antico sulle schede elettorali, l’unico sopravvissuto alle macerie della prima repubblica, un partito nato dalla forza delle visioni, degli slogan, e ovviamente delle balle. Se c’è una cosa in cui il Senatùr non ha avuto rivali è stato proprio il potere immaginifico, il potere della parola. Prendete la nascita del movimento. Bobo Maroni l’aveva raccontata così, a Giorgio Bocca, in Metropolis: “Frequentavamo il circolino di Bobbiate, uno di quei bar cooperativa con il gioco di bocce della provincia, lì si aggiunsero a noi Speroni e Leoni e lì nacque la Lega autonomista lombarda che di politico – conclude Maroni – aveva poco o niente”. E come avrebbe potuto diventare epico un movimento in cui i condottieri si raccontavano così? Certo che adesso nessuno potrà più dire come diceva Roberto Calderoli: “Magari siamo un partito ruvido, qualche volta rompiballe. Ma coerente”. Quando è andata smarrito questo filo asimettrico di coerenza? Con la Lega di governo? Con il ribaltone? Con il secondo matrimonio che la legato il Carroccio a Berlusconi? Certo, più passava il tempo, e più il leader che fu si inoltrava nel suo crepuscolo, protetto e strangolato dal Cerchio magico.
IL FIGLIO DELLE VALLI E LA VITA AGRA
Come sembrava lontano il primo Bossi che Bossi si era inventato, il figlio delle valli e della vita agra: “Hanno fatto così con noi ragazzi di paese – raccontava a Vimercati lui – ci hanno portato via da qua con ogni mezzo, ci hanno strappato con la dinamite dalla terra dei nostri padri”. E in questo passato che Bossi si era inventato, affioravano grandi ritratti utili per la sua battaglia. Una Nonna socialista, un padre cattolico … “Mia nonna si chiama Celesta. Ma la cosa più bella era il racconto che Bossi faceva di sè, una volta arrivato in vetta: “A quindici anni ero un ragazzo scapestrato che collezionava ragazzine e si divertiva con gli amici”. La data ufficiale di nascita della Lega, che inizialmente si chiamava Lega Autonomista Lombarda, è il 12 aprile 1984. Ma il movimento aveva iniziato i suoi primi passi un paio di anni prima, intorno a un capo morto in un incidente, Bruno Salvadori. Forse la Lega era nata dentro la forza barbarica di un celebre slogan: “La Lega ce l’ha duro–spiegava lo stesso Bossi – è un modo poetico per chi sa apprezzare certe cose. Era una metafora, abbastanza esplicita, del carattere della Lega. Ma non vorrei, adesso, che alla Lega si iscrivessero tutte le signore italiane …”.
Oppure era la Lega figlia di quel patchwork fra tutte le culture che da autodidatta Bossi aveva ingurgitato? “Il vecchio Marx – diceva con un po’ di vanagloria a Il Tempo nel 1992 – ci avrà pure insegnato qualcosa”. E che dire del carisma, del culto del capo? “Vedo che qualcuno dice che nella Lega comando solo io, ma non è vero”.
LA FOTO D’EPOCA E IL SIMBOLO
Oppure la Lega era l’invenzione immaginifica di quel simbolo, che Bossi ascriveva, con un altro aneddoto leggendario, al suo talento di fotografo? “Quale immagine più adatta, allora – mi dissi – dell’Albertùn, la grande statua di Alberto da Giussano che campeggia nella piazza centrale di Legnano? Corsi a fotografarla, e nell’occasione mi tornò utile la passione per la fotografia che avevo coltivato da ragazzo”. Una lavoro ispirato, quasi febbrile: “Riportai la foto su un foglio, ricalcaiilprofiloall’internodelcerchio, entro il quale disegnai anche i confini della Lombardia. Il tutto, stilizzato, divenne il simbolo della Lega”. Poco importa che un altro degli ex, Franco Rocchetta, disse perfido: “Aveva copiato il simbolo delle biciclette Legnano”.
Bossi in realtà era questo, soprattutto questo. Dava il meglio di sè nell’iperbole che in bocca a qualsiasi altro sarebbero suonate ridicole: “Noi diciamo stupidità che muovono l’Italia”. Era vero. Ma dietro c’era una biografia, e che biografia. C’erano stati i tempi grami. E poi quel primo matrimonio, poi dimenticato, le prime amicizie leghiste, la famiglia ripudiata quella di Pierangelo Brivio, marito di suo sorella: “Mia moglie ed io lo mantenevamo: gliel’abbiamo anche detto pubblicamente. E lui zitto. Gelato”. Ma l’invettiva più celebre, oggi del tutto dimenticata, era quello della sorella, Angela Bossi. Solo lei poteva ricordare pagine lontane e fallimentari come la fondazione della fantomatica “Unolpa”: nata prima della Lega “per staccare Varese dal resto della Lombardia”. Ma non era anche in questa incrostazioni di avventure fallimentari il segreto di un successo? A tutto questo mare di improperi Bossi rispose ancora una volta con la sua arma vincente di un tempo, il sorriso del ganassa ostentato a Mixer, intervistato da Giovanni Minoli: “Mia sorella Angela il leader? Sì, delle bistecche”. E lei, furibonda: “Ha detto che sono buona solo a far bistecche! Lui! Ah, se le ricorda bene le mie bistecche, lui! Perché per anni solo quelle ha mangiato, quel mantegnù”. Duello senza quartiere: l’ultima invettiva della Angela esplose in una intervista raccolta da Gian Antonio Stella, per Tribù: “Oooooh!!! Stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza essersi mai laureato!”. E i primi fondi? Tutti gli albori sono circonfusi nella leggenda. Sempre Brivio: “All’inizio i soldi al Bossi, per i suoi giornaletti, glieli dava Gheddafi”. Ma Brivio non era credibile perché non era che il primo degli apostati, il primo dei tanti che furono cacciati dal partitone leninista all’insegna dell’epurandosi-ci-si-rafforza. Non è stata questa anche l’ultima follia? Pensare di poter continuare a cacciare tutti, anche quando il suo carisma si era esaurito? Bossi non raccoglieva le insinuazioni, e con Vimercati parlava più volentieri del suo gruppo musicale: “Il mio complesso ebbe vita breve e grama. Io ero il meno dotato tecnicamente, ma avevo un certa fantasia: ero il paroliere del gruppo”.
E che dire della formazione umanistica? Lui la raccontava così: “La prima tappa della mia tappa di avvicinamento alla cultura – diceva Bossi – fu la Scuola Radio Elettra. Un corso per corrispondenza che spiegava il funzionamento di molte apparecchiature elettriche ed elettoroniche”. Chi mai potrebbe immaginare che quel Bossi si considerava professore? “Per pagarmi gli studi davo lezioni private. Non ero male come insegnante: la mia dialettica nei comizi nasce da lì”. Dove iniziava la verità? Dove il mito? “Evitai le serali, perché avrei impiegato altri anni ad arrivare in fondo. Mi dedicai anima e corpo agli studi; senza dimenticare le donne, però. … Sul finire degli anni Sessanta mi diplomai”. Il lavoro di autocostruzione dell’immagine era stato per certi versi titanico: “A quell’epoca ero molto ottimista, mi sentivo in grado di mantenere una famiglia, ormai la laurea era dietro l’angolo e pensavo di ottenere facilmente un posto, al termine di una carriera universitaria brillante anche se tardiva. Avevo in mente di diventare medico”. Peccato che sulla balla della laurea la prima contestatrice era stata proprio Gigliola Guidali, prima moglie di Umberto Bossi, che in una memorabile intervista a Oggi, raccontò: “All’inizio del 1975 decidemmo di sposarci in agosto. In aprile Umberto diede a tutti la grande notizia: mi sono laureato, presto avrò un impiego come medico. Non facemmo nessuna festa, ma corsi a comprargli un regalo, la classica valigetta in pelle marrone da dottore”. Mai usata. Però tutti i giorni usciva di casa. Finché Gigliola non scopre tutto: “Dovetti chiedere di essere ricevuta dal rettore. E lì, in quella stanza austera, un tabulato mi rivelò quello che sospettavo”. Una testimonianza che accostata alla sua compone un quadro fantastico: “Nel ‘77, se ben ricordo – aggiungeva Bossi – cominciai a collaborare con la clinica di Patologia chirurgica dell’università di Pavia, come esperto d’elettronica applicata in sala operatoria”. L’autorappresentazione non aveva limiti: “Continuavo a dilettarmi di elettronica, riuscii perfino a costruire un piccolo laser nel garage di casa”.
LE AMPOLLE SACRE, LA SECESSIONE, IL PARLAMENTO
Poi erano arrivate la Lega e l’incontro del destino, quello con Bobo Maroni: “Ricordate le prime scritte che inneggiavano alla Lega, quelle sui viadotti delle autostrade? Bene, erano trecento. Le ho fatte tutte io, con tanti chilometri in auto e non so più quante bombolette spray. Poi è arrivato Bobo”. Aggiungeva Maroni: “Bossi lo incontrai casualmente. La sera di una domenica. Io e la mia ragazza non sapevamo cosa fare, si andò da amici a Capolago e si finì in casa di Bossi. Lui si mise a parlare di cose incomprensibili, astruse. Mi annoiavo profondamente, che senso aveva sproloquiare di federalismo fra quattro provinciali annoiati, la sera di una domenica?”. Era sempre l’autopersuasione che rendeva tutto grande, sempre quella forza che sosteneva l’Umberto: “Resta il fatto che mentre raccontava di Dea, Dia, Digos, Cia, Sism, Sismi, Mossad e chi più ne ha più ne metta –raccontava ancora Tabladini– si passavano le serate dei dopo comizi in pizzeria a sentire le rodomontate su come tentavano di farlo fuori e su come lui era bravo a schivarli”. Bossi, ovviamente, si vedeva tutto intento al sacrificio: “Lavoravo come una bestia, nella commiserazione di parenti e amici. Vidi mia madre piangere, e non è certo una donna facile alle lacrime, quando mi trovò in canottiera a friggere le patate in un campetto di periferia”. E ovviamente sempre tornava a quel chiodo. La povertà, gli stenti, l’incorruttibilità: “Se avessi voluto farmi corrompere, avrei accettato una valigia di miliardi dalla Dc per distruggere la Lega”.
E aggiungeva ancora nel 1992: “Ho passato cinque lunghi anni in mezzo agli uomini del Palazzo. Una bella condanna, per uno come me che vuole liquidare i politicanti romani. Eppure è un calice amaro che mi tocca bere”. Adesso gli anni sono diventati quasi trenta. A Bossi faceva piacere alimentare il mito di un carisma sintetico, di un leader predone che seduceva le donne infischiandosene nel politicamente corretto: “La mia prima fidanzata? Non me la ricordo più. Ne ho avute parecchie di ragazzine, facevo lo sbruffone”. Chi erano i militanti della Lega, dopotutto? “La base della Lega è la fanteria bergamasca e bresciana, quella che un giorno ha fatto l’Italia. E io piaccio alla fanteria”. Vestivano tutti più o meno come lui, parlavano tutti più o meno come lui, erano tutti più o meno figli di quel sogno e di quelle visioni. Le ampolle sacre del Dio Po, la secessione, il governo Sole, il parlamento padano, le ronde, le camicie verdi, le pallottole, gli insulti ai magistrati, “il manico” agitato a Margherita Boniver, il tricolore gettato nel cesso, le tentazioni secessioniste: “Noi non amiamo più l’Italia. Se uno scopre che la propria donna è una zoccola può perdonare una scappatella 2 o 3 volte ma poi la lascia”.
Il Bossi di oggi invece è stato strangolato dal cerchio magico, reso afasico dall’ictus, sequestrato dalla sua seconda famiglia e dalle amorevoli cure di Emanuela, che gli ha fatto vivere la sua stessa sopravvivenza con un senso di colpa. E poi quei debiti esibiti come medaglie: “Ho passato anni infernali, quando si chiuse il giornale e ci rimasero sul gobbo venticinque milioni di debiti. Maroni pagò la sua parte ed ebbe la fortuna che lo chiamarono a militare così in qualche modo staccò”. E infine quel testamento morale, da capo guerriero, che adesso lo inchioda: “Io sono come un barbaro, porto la mia famiglia in battaglia con me. La mia donna e i miei figli devono sentire l’odore della polvere da sparo e il fragore metallico delle spade. La mia crociata è la loro crociata”. Adesso è accaduto il contrario. E l’odore di polvere da sparo si è dissipato: finiscono le visioni, i sogni, i miti, le parole tornano chiacchiere. E trent’anni di battaglie finiscono con l’assalto alla Lega e l’immagine di quel leader in camicia che se ne va. Tutto finito, come lacrime nella pioggia.