Uno dei precedenti classici potrebbe essere quello del filosofo romano Seneca, che si tolse la vita per protestare contro la svolta autoritaria di Nerone, il quale  d’altro canto glielo aveva ordinato.

Durkheim ha condotto uno studio rimasto senza eguali sulle cause sociali del suicidio, stabilendo fra l’altro che “se anziché scorgervi unicamente avvenimenti privati, isolati gli uni dagli altri, che richiedono ognuno un esame a sé, si contemplasse l’insieme dei suicidi commessi in una determinata società, in una determinata unità di tempo, si constaterebbe che il totale così ottenuto non è una semplice somma di unità indipendenti, un tutto da collezione, bensì un fatto nuovo e sui generis, avente una sua unità e individualità, una propria natura quindi e, per di più, una natura eminentemente sociale”.

Colpiscono i suicidi dei membri di minoranze nazionali oppresse, come i Kurdi qualche tempo fa o più di recente i Tibetani.

Ma qui vorrei focalizzare l’attenzione sul suicidio come indicatore di una crisi profonda, non solo economica. Da questo punto di vista i suicidi sono espressione di vite cui sono sottratte la dignità e il futuro e si moltiplicano quando il vecchio ordine va in pezzi senza che ancora emerga quello nuovo. A volte essi assumono un rilievo fortemente politico, provocando addirittura un’ escalation delle manifestazioni di massa fino a contribuire a determinare vere e proprie rivoluzioni.

Così di recente in Tunisia, dove il suicidio di un venditore ambulante umiliato dal regime, Mohamed Bouazizi, avvenuto nella cittadina di Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010, viene ritenuto unanimemente una delle tappe fondamentali, se non la vera e propria scintilla, dell’insurrezione popolare che di lì a un mese portò alla caduta dell’oppressivo e corrotto  regime di Ben Alì.

Ancora più di recente ha provocato grossa emozione, e non solo in Grecia, il suicidio di un pensionato, Dimitris Christoulas, che si è dato fuoco qualche giorno fa in piazza Syntagma, lasciando il seguente messaggio, che vale la pena di riprodurre, leggere e meditare attentamente, anche perché per ovvi motivi è stato sottoposto a censura da parte di molti media: “Il governo  collaborazionista mi toglie ogni possibilità di sopravvivenza, basata su di una degna pensione per la quale ho versato contributi per 35 anni senza alcun aiuto statale. E dato che la mia età avanzata non mi consente altre reazioni più dinamiche (anche se devo dire se qualcuno impugnasse il Kalashnikov seguirei il suo esempio), non vedo altra soluzione che questa fine degna, in modo tale da non dover frugare nell’immondizia per cercare  di sopravvivere. Credo che i giovani senza futuro un giorno prenderanno le armi e impiccheranno i traditori di questo Paese in piazza Syntagma, proprio come gli Italiani fecero con Mussolini nel 1945″.

Parole dure, parole forti che fanno riflettere. Quando la disperazione arriva al punto di togliersi la vita dichiarando questo, è evidente che siamo vicini al punto di rottura.

E in Italia? Nella migliore (o peggiore) tradizione nazionale, finora abbiamo avuto un certo numero di  suicidi, sia di disoccupati, che di imprenditori, come scelte assolutamente individuali e prive di risonanza politica. Antonio Di Pietro ne ha attribuito, con qualche fondamento, la responsabilità al governo Monti e alle sue devastanti scelte politiche.

Ma il discorso deve essere più ampio. La crisi sistemica del capitalismo distrugge il futuro e quindi le vite umane. Nessuno deve arrivare alla scelta dell’autoannientamento, ma è quindi necessario costruire una risposta collettiva che sia una risposta di vita. E arrivare preparati al punto di rottura. Per imporre, nel modo più pacifico e democratico possibile, il passaggio a un sistema differente, in cui non debba più esistere  più il suicidio, né come frutto di disperazione individuale, né come forma di lotta.

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