Oltre all'alta velocità, ci sono altre spade di Damocle per la valle: le opere delle società Sitaf (autostrade) ed Iren (energia idroelettrica) potrebbero presto lasciare Giaglione all'asciutto. Non solo: il materiale radioattivo abbandonato nel sottosuolo dopo vecchi lavori, rischia di far aumentare le patologie
Falde compromesse, torrenti avvelenati, sorgenti prosciugate: in Val di Susa a creare problemi non è solo il Tav. Nel comune di Giaglione, in particolare, sono tre le minacce alla preziosa riserva idrica: oltre all’alta velocità, le opere delle società Sitaf (autostrade) ed Iren (energia idroelettrica) potrebbero presto lasciare il paese valsusino completamente all’asciutto. “L’amministrazione ha preso accordi con le società senza avvertire la popolazione e rifiutando di incontrala in riunioni e dibattiti pubblici”, protesta un gruppo di donne giaglionesi: “Si abbassa la testa di fronte a grandi società che promettono soldi o il rifacimento di piazze e strade in cambio della gestione del territorio”. Un territorio minacciato anche dai materiali radioattivi del sottosuolo. Che, se non lasciati dove sono, possono aumentare notevolmente l’incidenza di diverse patologie. Nella miniera del Molaretto, ad esempio, la presenza di uranio porta i livelli di radiazioni fino a 1000 volte il fondo naturale.
Il dramma del Mugello, dove gli scavi per costruire la linea dell’alta velocità hanno portato ad un irreparabile dissesto idrogeologico, non sembra avere insegnato nulla. E anche in Val di Susa, dove per il governo in carica il Tav rimane una priorità, vedere l’acqua sgorgare dal proprio rubinetto potrebbe diventare solamente un ricordo. Soprattutto a Giaglione, dove in corrispondenza della sorgente che alimenta le fontane della borgata si è iniziato a costruire un vascone per l’impianto antincendio delle gallerie Sitaf dell’autostrada del Frejus. Un problema non da poco, vista la capienza del bacino, che si somma a quello della salvaguardia del canale di Maria Bona. In questo corso d’acqua, che scorre proprio in mezzo al paese ed è utilizzato dai suoi abitanti per l’irrigazione, Iren S.p.a. ha ottenuto il consenso comunale per scaricare, oltre ad ingenti quantità di acqua clorata, i materiali fangosi che disturbano i lavori della sua centrale locale.
C’è poi il tunnel geognostico della Maddalena, che pur partendo da Chiomonte interverrà direttamente sulle captazioni di Boscocedrino, principale risorsa dell’acquedotto comunale. Acquedotto la cui capacità è decisamente inferiore alla richiesta di queste mega-infrastrutture. Basti pensare che, secondo il Rapporto Cowi redatto per conto della commissaria europea De Palacio, il solo tunnel di base drenerà da 60 a 125 milioni di metri cubi di acqua all’anno, “il fabbisogno idrico di una città con un milione di abitanti” (sarebbe come avere un’altra Torino in Valle di Susa).
Ma i problemi di quelle aree non si limitano alla perdita delle risorse idriche. Resta anche da affrontare la questione della presenza di uranio nelle montagne. Secondo il governo italiano, autore di un recente documento in cui si sostiene che il progetto del Tav “non genera danni ambientali diretti ed indiretti” e il cui “impatto sociale sulle aree attraversate è assolutamente sostenibile”, questo minerale addirittura non è presente in quelle rocce. Le rivelazioni eseguite in loco da Massimo Zucchetti, docente di Protezione dalle Radiazioni del Politecnico di Torino, sembrano però dare torto all’esecutivo. Per il docente torinese il documento diffuso dal governo è di “un’imbarazzante pochezza”. Il testo prodotto dal tecnico Monti, dice, “affastella affermazioni approssimative, errate, e soprattutto – cosa più grave – prive di fonti e studi verificabili a loro supporto”.
In effetti, nella miniera del Molaretto di radiazioni ce ne sono eccome, mentre chi oggi propone la grande opera ferroviaria afferma che in seguito ad appositi carotaggi tutti i valori “rientrano nella norma”. “Strano che non risulti presenza di uranio proprio dove si scaverebbe il tunnel – ricorda Zucchetti – quando in tutta l’area si segnalano ben 28 affioramenti uraniferi”.
Uranio, gas radon, ma anche amianto, di cui nei progetti si ammette la presenza solo nei primi 500 metri di roccia, ma il cui smarino (polveri e detriti) prodotto durante le fasi di scavo e movimentazione del materiale di risulta potrebbe determinare una contaminazione ambientale in aria e su superfici di entità non trascurabile. “Solo 500 metri di tunnel di base – sottolinea il professore – corrispondono comunque a 170.000 metri cubi di questo smarino, pari al carico di 17.000 Tir”. “Attendiamo una valutazione seria su questi aspetti, che tuttora manca”, conclude l’ingegnere nucleare: “O forse resta solo da capire quante risorse e quanti ulteriori soldi pubblici verranno sprecati prima che il progetto venga abbandonato”.
di Andrea Bertaglio e Lorenzo Galeazzi