La classe politica italiana che nel biennio ’92-‘93, secondo le indagini delle procure antimafia, avrebbe negoziato l’ignobile trattativa con Cosa nostra, è vittima di un’estorsione oppure deve ritenersi complice dell’organizzazione criminale? Questo è il dilemma che oggi tormenta le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, già impegnate nei giorni scorsi in una faticosa tornata di audizioni a Palazzo San Macuto che hanno evidenziato convinzioni per nulla univoche. La questione giuridica è complessa e risulta importantissima, anche per fissare gli eventuali limiti dell’azione penale, ma soprattutto perché si pone come una verifica definitiva della capacita’ del nostro Paese di riconoscersi fino in fondo come uno Stato di diritto.
L’ex ministro Mannino è, come ipotizza la procura di Palermo, ‘’l’ispiratore’’ della trattativa o è una vittima dell’intimidazione mafiosa, ovvero un uomo terrorizzato che, nel ’92, dopo l’uccisione di Lima e di Guazzelli, suggerisce ai carabinieri di aprire un negoziato con i boss stragisti solo per salvarsi la vita? Stessa domanda si pone nei confronti di Scalfaro, Mancino e Conso – il primo ex presidente della Repubblica (recentemente scomparso), gli altri ex ministri rispettivamente dell’Interno e della Giustizia – tutti in vario modo coinvolti nella stagione del dialogo a suon di bombe tra Stato e mafia, tutti univocamente votati al negazionismo più intransigente. Se sono scesi a patti con Cosa nostra, lo hanno fatto perché costretti ad accettare la logica del negoziato imposta da Cosa nostra con il terrore, oppure perché folgorati dall’idea trattativista e convinti che, cercando Totò Riina (‘’Si sono fatti sotto’’, disse, ai primi di luglio del ’92, il superboss corleonese) e aprendo con lui la strada del dialogo, avrebbero fermato lo stragismo, pur se questo comportava la trascurabile conseguenza di svendere la dignita’ dello Stato? Il quesito è cruciale perché, nel primo caso (presidenti e ministri costretti da Cosa nostra a trattare), l’intera classe politica sarebbe da considerare vittima di un’estorsione, e dunque penalmente non perseguibile. Nel secondo caso (politici e apparati promotori dell’apertura dialettica e della tregua bilaterale), al contrario, il procedimento penale per minaccia o violenza a corpo politico dello Stato, ipotizzato dai pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo – per il momento solo a carico di Mannino e Dell’Utri, oltre che degli ufficiali del Ros Subranni e Mori – sarebbe pienamente legittimato.
Da chi partì l’iniziativa di trattare? Dalla mafia che la impose con la forza allo Stato, che è l’ipotesi di Caltanissetta? O dallo Stato, che la offrì su un piatto d’argento alla mafia, come sembra convinta la procura di Palermo? Questo è il dilemma. Se fosse vero il secondo caso, e cioè se la procura di Palermo avesse visto giusto, oltre ad aprire un processo penale nei confronti dei diretti protagonisti della trattativa, l’inchiesta condurrebbe ad una sorta di impeachment morale di un’intera classe dirigente, sia quella che traghettò l’Italia dalla Prima alla Seconda Repubblica, sia quella che subito dopo – dal ’94 in poi – conquistò con una massiccia vittoria elettorale il governo del paese, dando vita ad un vero e proprio patto di non belligeranza con Cosa nostra, i cui frutti sono oggi sotto gli occhi di tutti. Pezzi della sinistra e pezzi della destra, dunque, con ruoli e responsabilità diverse, ma nessuno escluso.
L’indagine è ancora in corso e non se ne possono prevedere, al momento, gli esiti. Ma c’è chi fin d’ora si interroga sull’epilogo di questi approfondimenti. Perché, se alla fine risultasse vincente l’idea di una classe politica ‘’vittima’’ dell’estorsione mafiosa, e dunque impunibile, sarebbe un paradosso verificare che uomini dello Stato hanno contrattato con i boss le condizioni di sopravvivenza dell’organizzazione criminale mafiosa, scoprendo che la cosa non è rilevante sul piano penale. Già in questi vent’anni, su questo tema si è consumato il fallimento della politica, perché nessuna Commissione antimafia ha messo la trattativa al centro delle proprie indagini, tranne quella guidata da Pisanu, che però lo ha fatto quando il patto mafia-Stato era stato in gran parte svelato.
Ecco perché l’inchiesta di Palermo è un’indagine di fondamentale importanza. Si tratta di un’esplorazione investigativa che oggi mette alla prova la capacita’ della giustizia penale nel suo complesso. Se si dovesse chiudere questa stagione con un nulla di fatto, sarebbe per tutti una bella fregatura. Significherebbe che lo Stato non è in grado di dare una risposta ai cittadini, né sul piano giudiziario, né su quello della politica.