E' il quinto anno di fila che il nostro Paese si aggiudica il non invidiabile primato: i rimborsi per processi troppo lunghi sono costati allo Stato quasi 8,5 milioni di euro nel 2011 (più 2,5 rispetto al 2010)
L’Italia è prima per casi pendenti nella lista della Corte europea dei diritti dell’uomo aggiornata al dicembre 2011. E’ doveroso precisare che la Corte di Strasburgo non considera solo i Paesi Ue ma anche alcuni extra europei essendo un organismo del Consiglio d’Europa (47 Paesi in totale compresi Turchia, Russia e Ucraina). Sono 2.522 le sentenze di condanna a carico dell’Italia ancora “pendenti”, cifra che vale il primato negativo per il quinto anno di fila, e che ci fa toccare le vetta dei 13.741 giudizi non applicati. Un’enormità di fronte ai 3.663 della Gran Bretagna, ai 3.003 casi della Germania e ai 2.752 della Francia.
Sarà che il Consiglio d’Europa “ce l’ha con l’Italia” (solo ieri ha denunciato lo scarso controllo al finanziamento pubblico ai partiti), ma la fotografia scattata oggi a Strasburgo ritrae un’Italia indietro anni luce rispetto alle altre democrazie europee, dove la giustizia ha tempi ben più rapidi. Proprio la lentezza della giustizia italiana è la causa principale della maglia nera nell’applicazione delle sentenze dell’Alta Corte incaricata di difendere la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in tutti i Paesi aderenti. Questa lentezza ci colloca, per quanto riguarda il 2011, davanti alla Turchia (1.780 casi), Russia (1.087), Polonia (924) e Ucraina (819).
Sarà che il numero totale delle sentenze è in costante crescita (e questo non solo in Italia, con 12.600 casi nel 1999 e 151.600 nel 2011), ma il fatto che i pending cases italiani costituiscano il 9,1 per cento del totale è davvero troppo. “Alla fine del 2011 la Corte ha comunicato all’Italia 2.166 sentenze delle quali 1.651 con almeno una violazione all’articolo 1 paragrafo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce “il diritto ad un processo giusto in un arco di tempo ragionevole”, si legge nella comunicazione ufficiale della Corte.
Un ritardo che costituisce non solo una oggettiva violazione ad un diritto fondamentale riconosciuto a livello internazionale, ma anche un concreto danno economico alle casse dello Stato. Si stima, infatti, che nel 2011 l’Italia abbia dovuto pagare come risarcimento a chi fa presentato ricorso quasi 8 milioni e mezzo di euro, 2,5 in più che nel 2010. Almeno in questo finiamo dietro Turchia (circa 31 milioni di euro) e Russia, ma in tempi di crisi e tagli è davvero una magra consolazione.
Diritto alla mano, si parla della legge nazionale numero 89 del 24 marzo 2001, la cosiddetta “legge Pinto“, che prevede “un’equa riparazione per il danno subito per l’irragionevole durata di un processo”. In molti casi si tratta di processi non penali, ma la cui durata costituisce comunque un danno per le parti in causa. Un esempio. Nel marzo del 2006 il caso “Scordino vs Italia” finito a Strasburgo ha visto una famiglia di Reggio Calabria ricevere 2.450 euro solo per l’eccessiva durata di un processo riguardante una semplice questione di successione. Questo caso ha aperto la pista ad altri casi simili (Apicella, Cocchiarella, Zuollo, e tanti altri) che hanno visto rimborsi dai mille ai cinquemila euro imposti all’Italia dalla Corte di Strasburgo. A questo punto è lecito domandarsi cosa succederebbe alle casse dello Stato se tutte le parti in causa di un processo troppo lungo facessero ricorso alla Corte dei diritti dell’uomo.