Politica

Il Padano e quel guscio (rotto) di tartaruga

E poi, dopo il turbine di quel discorso, dopo le grida, gli urli, le luci, le cornamuse, le scope, i barbari che sognano, che insultano e che adesso gridano anche contro di lui. E poi, dopo l’ultimo bagno di folla, il senso di quella febbre malarica che lo avvolge e non lo lascia: il popolo dei volti attenti, parlare da un palco, l’adrenalina che ti si infila anche nel corpo segnato dalla malattia e ti fa provare un brivido freddo. La vita per chi campa di politica è questo, anche quando ti fischiano.

E poi, l’emozione. Quando dice quella frase, a lungo rimuginata: “Chiedo scusa, ho rovinato i miei figli…”. Subito dopo gli viene da piangere, adesso sta pensando a lui. Così deve riavvolgere il nastro, capire quando tutto questo è iniziato. Il giorno dell’ictus: prima la vita a cento all’ora, senza fermarsi mai. E poi il buio. Oppure: il giorno in cui si è svegliato nella clinica con quel camice verde, mezzo corpo che non si muove più e tutto ha iniziato ad andare al rallentatore? Svegliarsi significa aggrapparsi a quello che ti è rimasto intorno. E poi il tartarughino. Prima che tutto questo accadesse, prima dell’ictus e della resurrezione, non l’aveva mai visto. Un giorno, quando era tornato a casa il suo figlio più piccolo gli aveva raccontato, con il sorriso dei bambini curiosi e felici di tutto: “Lo sai papà, che in giardino c’è una tartaruga che si è spezzata il guscio ma che è sopravvissuta? Un miracolo. Ieri l’ho vista camminare”.

In quel tempo lui ancora rideva e non pensava alle cose lente. Giocava con le parole e le minacce, cambiava tavoli da gioco e alleanze, mangiava sardine, minacciava e conciliava, si divertiva a collezionare iperboli: “Noi diciamo stupidaggini che muovono il mondo”. Non ci aveva fatto caso. Ma in una porzione del suo cervello quella storia era rimasta impressa con inchiostro indelebile. Poi il giorno del risveglio, il senso della colpa, che ti schiaccia. Il giorno in cui la famiglia è quello che ti salva, ma anche la prova di quello che hai perso: “Se tu fossi morto senza aver provveduto al loro futuro – gli aveva detto lei – di cosa avrebbero campato?”. E poi la fatica della riabilitazione. Del guscio spezzato si era ricordato all’improvviso, quando era tornato a sua casa. Lo aveva chiesto a sua figlio: “Ma davvero è sopravvissuto il tartarughino?”. Il piccolo lo aveva abbracciato commosso: “Papà, sei tornato quello che eri …”.

Sì, perché difficile è tornare. In ogni mondo e in ogni tempo, lui questa cosa degli uomini l’aveva imparata. Quanti ne aveva visti, anche nel Movimento. Emersi dal nulla, e nel nulla tornati, dopo aver dato tutto. Ma difficile era tornare. E lui era tornato. Anche sul palco, come aveva sempre fatto. Prima erano solo lui e il barbaro senza sogni. Il barbaro non aveva carisma, ma aveva testa. Lui non aveva testa, ma fiuto. Lui sapeva accendere i cuori con acrobazie senza rete, con la forza e le balle. Adesso con la salivazione lenta e il corpo rallentato. Con le parole che si inceppano, i sussurri. Aveva scoperto che anche quello poteva creare un brivido: “Non sono mica morto … ehhh”. E giù un boato, e lacrime. L’aveva pensata tante volte, quella frase, il suo biglietto da visita dall’oltretomba. Ma come era diverso vedere la gente che ammutolisce, perché non è preparata: sei uno che riemerge dall’ombra segnato, ma che ci scherza su. Il macabro e il tragico sono leve ancora più potenti della gioia e della rabbia.

Ma chiudere quel discorso da zombie chiamando sul palco suo figlio, era più di un simbolo: “Sto pagando un debito”, pensava. E stava dando una risposta a sua moglie. Lei gli aveva raccontato della brandina in soffitta, dei libri di magia, delle notti passate a leggere e a sperare, persino nel soprannaturale, per lui e per i loro figli. E lui le aveva promesso: “Ci penso io”. Il Cerchio era nato così, in quei giorni. Come una necessità della storia. Era diventato magico poi. Il cerchio era il debito con chi lo aveva aiutato a risorgere. E fingere di non capire era il suo nuovo meccanismo di difesa. Un capo guerriero deve dormire con un occhio solo. Un Lazzaro resuscitato accresce il suo mito fingendo di non sapere.

E poi c’era il suo Grande Nemico, quello che aveva chiamato “il mafioso di Brembate”. Quanto gli era piaciuto insultarlo su tutte le piazze. Come si era sentito padrone della storia quando aveva gridato nell’aula del Parlamento: “Il Nord le toglie la fiducia!”. E sentire il tonfo della caduta, perché in un combattimento fra tirannosauri conta solo restare in piedi. Ma sua moglie gli aveva detto che il Grande Nemico era rimasto vicino per tutta la malattia, leale al patto con cui avevano ricostituito l’alleanza. Adesso non lo vedeva più come un tempo, adesso non avrebbe più scherzato sul suo aereo privato definendolo “un tubetto di dentifricio”. Adesso sapeva che i soldi e le macchine ti salvano la vita, e che il conto della clinica erano centomila euro. Adesso erano tutti e due vecchi in lotta con il tempo: per la prima volta simili.

Aveva visto il suo movimento come una leva per sollevare il mondo, quando credeva alla forza. Adesso lo vedeva come una ditta e una casa. L’unica che aveva. Sua moglie doveva ristrutturare il terrazzo e pagare il conto. Era bello sapere che senza chiedergli nulla la sua ditta lo proteggesse, dopo che lui aveva messo a rischio la sua vita per la ditta. Il primo giorno nel nuovo giardino, era accaduto il miracolo: lui – che adesso vedeva meglio le cose lente che quelle veloci – aveva notato un movimento. Il tartarughino camminava lentissimo, trascinando la sua corazza. Il guscio sembrava che si fosse saldato da sé, con un piccolo burrone dove la corazza si era divisa. Aveva pensato: “Ci è successa la stessa cosa”.

Quando aveva capito che il Cerchio magico era stretto intorno a lui? Subito. Era protetto, ma anche tenuto lontano da tutti. Il giorno in cui qualcuno arrivò al suo orecchio a dirgli che i due eredi costavano come il mutuo di una casa aveva fatto finta di smarrire il filo. Quando aveva visto le macchine non aveva chiesto. Si era ricordato di quando sua sorella gli gridava: “Mantegnùùù!”. Mantenuto, lui. Ma poi la sorella era tornata a cuocere bistecche e “il Mantegnù” aveva fatto la storia d’Italia. Aveva cancellato le storie brutte, e aveva chiamato il suo figlio ed erede il giorno più importante del movimento, sul grande prato: “Adesso sta studiando, a Londra”. Tutto poteva andare bene.

Le inchieste gli sono arrivate addosso come una tegola sulla testa. Le segretarie hanno detto troppo. L’autista aveva fatto i filmini. Le inchieste hanno infranto il cerchio magico. Il barbaro senza sogni e carisma lo ha chiamato, con lo stesso tono di voce con cui lo aveva chiamato lui quando stava per espellerlo: “Se vuoi salvare il movimento devi rinunciare a difendere i tuoi figli. E voglio la testa della pasionaria”. Ha capito che non scherzava. Sua moglie lo ha ascoltato senza dire nulla. La pasionaria bruna, per la prima volta in vita sua, ha pianto. Salire sul palco insieme al barbaro senza sogni è stato bello e terribile, è stato come risorgere con un sacrificio umano. Ascoltarlo mentre provava a imitarlo una tortura. Baciare la bandiera. Toccare le scope. Dire addio ai figli. Perché quando ti prendono che rubi la marmellata non ti salva nessuno. Quando ha finito di parlare, quando sono finiti gli applausi e fischi, ha pensato al tartarughino. Ed è allora che le lacrime gli hanno tagliato il fiato. Anche lui con la cicatrice sulla corazza. Anche lui vivo solo perché capace di sopravvivere a chi lo ama.

Il Fatto Quotidiano, 12 Aprile 2012