E’ una Pasqua di alta tensione in Macedonia. Dopo lo shock per la strage di tre giorni fa, giovedì santo ortodosso, in cui sono state uccise cinque persone, una nuova ondata di violenze rischia di diffondersi senza controllo in tutto il Paese a undici anni dalla fine della guerra civile. Il massiccio spiegamento di polizia ha per adesso tenuto sotto controllo la rabbia della popolazione macedone che ritiene responsabile della strage la comunità albanese. Consapevoli che dalle indagini può dipendere la stabilità del Paese, dal presidente Gjorgje Ivanov e dal ministro dell’Interno Gordana Jankulovska sono giunti ripetuti appelli a mantenere la calma e a evitare strumentalizzazioni politiche. Poche le notizie filtrate sulla strage di Radisani, sobborgo alla periferia nord di Skopje. Quattro ragazzi ventenni uccisi a colpi di arma da fuoco da distanza ravvicinata sulla sponda di un lago artificiale, a centro metri un altro corpo di un uomo di 45 anni, forse un testimone oculare. Il delitto sarebbe stato compiuto da più persone.
Le tensioni interetniche non sono una novità, ma l’escalation di violenze nei primi mesi del 2012 dovrebbe far riconsiderare la definizione di frozen conflict con cui è stato definito il contesto macedone, circa due milioni di abitanti un quarto dei quali albanesi stabiliti principalmente nel nord. Anche i dati sono fonte di tensioni etnico-politiche: il censimento previsto nello scorso ottobre è stato annullato per le diverse interpretazioni di metodologia tra i due partiti di governo, il Vmro del premier conservatore Nikola Gruevski e il Dui di Ali Ahmeti, che da leader dell’esercito di liberazione nazionale – l’Uck macedone – durante gli scontri del 2001 è diventato il punto di riferimento politico della minoranza albanese (“comunità non maggioritaria” secondo la Costituzione). Oggi che l’Uck è ufficialmente sciolto, a seminare paura è l’Aksh, esercito nazionale albanese, milizia paramilitare che ha come obiettivo l’unificazione di Kosovo, Albania e parte della Macedonia. Il 17 marzo scorso l’Aksh in un comunicato ha informato di aver riattivato le sue strutture militari.
L’istituzionalizzazione dell’etnia e il sistema di condivisione del potere non hanno coinciso con la sviluppo di una cultura democratica e di un vero stato di diritto. A Gostivar, roccaforte albanese, nello scorso febbraio un poliziotto ha ucciso due giovani albanesi in una vicenda dai contorni poco chiari ma che includono l’odio etnico. Nei giorni successivi si sono verificate numerose violenze reciproche, a Skopje e Tetovo, dove persone mascherate hanno pestato i passeggeri di alcuni autobus con mazze da baseball e spranghe. Per evitare scontri è stato sospeso anche il campionato di calcio, dopo che per mesi negli stadi sono state bruciate bandiere macedoni e albanesi. In particolare gli hooligans albanesi dello Shkendija di Tetovo sono indicati tra gli autori degli attacchi contro la popolazione macedone. In Kosovo è stata lanciata una molotov contro l’ambasciata macedone. Violenze contro violenze fino all’episodio più grave, la strage di Radisani.
Eppure i difficili rapporti tra macedoni e albanesi non bastano a spiegare la parabola di uno Stato che nel 2005 sembrava lanciato, con il fiore all’occhiello della candidatura ufficiale a membro della Unione Europea. A vent’anni dall’indipendenza, la Macedonia rimane uno dei Paesi più poveri dei Balcani con un tasso di disoccupazione oltre il 30%, mentre i principali sforzi del premier Gruevski sono indirizzati alla celebrazione dei macedoni diretti discendenti, secondo i sostenitori, di Alessandro Magno.
di Alessandro Cesarini