Non sono d’accordo: non penso sia stato giusto sospendere tutti i campionati per la morte in campo di un giocatore, tragica, ma naturale; non penso sia stata la risposta giusta a quanto avvenuto, né il modo giusto di mostrare rispetto e condividere il dolore. E io non sono d’accordo, nonostante il conformismo omologato di tutti gli apprezzamenti pubblici e mediatici per la decisione della Federazione, suggeriti i primi dalla facile demagogia del consenso funereo e dettata la seconda dal timore delle critiche che un atteggiamento diverso avrebbe comportato.

Intendiamoci e non giochiamo su facili equivoci: il decesso improvviso di un giovane di 25 anni è una tragedia umana; e lo sarebbe parimenti stata se fosse avvenuto su un banco d’Università o a un tavolo di lavoro o durante una gita con gli amici o al tavolino di un bar; ed è una tragedia che colpisce di più perché avviene sotto gli occhi delle telecamere –a proposito di ipocrisia, vogliamo parlare delle immagini di Morosini che s’accascia in campo riproposte all’infinito e ‘moviolizzate’ sugli schermi televisivi?-.

Ma è una morte accidentale, come ne sono sempre avvenute e, purtroppo, sempre avverranno, anche se gli esami medici saranno sempre più accurati; anche se la prevenzione in campo sarà migliorata; anche se l’arrivo dei soccorsi sarà più tempestivo. E’ una tragedia umana, non una tragedia da attribuire al ‘sistema’: non è la morte di un agente, o di un tifoso, vittima di scontri tra opposte fazioni prima, durante o dopo un match; non è la morte di un giocatore vittima di un’aggressione in campo (o fuori dal campo)… Il ‘sistema’ ha tante enormi responsabilità, ma non Morosini, come non Curi molti anni or sono e i tanti purtroppo venuti dopo di lui, in Italia e ovunque: e chi dice ‘mai più’ nega la friabilità della vita.

Giusto, giustissimo, sospendere il match in corso. Ma bloccare tutte le attività, senza che questo abbia alcun rilievo preventivo rispetto a ulteriori incidenti analoghi, non mi pare giusto: mi pare, piuttosto, un lavarsi la coscienza dall’accusa, forse emotiva e infondata, e magari pure dal dubbio di non avere fatto abbastanza per impedire la tragedia. Se muore d’infarto – non un incidente sul lavoro, un infarto – un impiegato alla scrivania in ufficio –e succede-, se muore un operaio al tornio in fabbrica –e succede-, se muore un giornalista al computer –e succede-, nessuno si aspetta che tutte le attività del loro settore si fermino.

Una volta si diceva che ‘the show must go on’; oggi, sembra blasfemo dirlo. Io sarò blasfemo, ma lo penso e lo dico: non conoscevo Morosini, anzi –pur essendo tifoso e appassionato di calcio- non avevo alcuna conoscenza del suo percorso sportivo e personale, ma credo che scendere in campo con impegno e con lealtà, dopo avere osservato un minuto di silenzio e portando il lutto al braccio, sarebbe stata da parte del ‘sistema’ risposta migliore di una domenica di stadi vuoti e di dolore ufficiale.  Se Morosini era atleta corretto e onesto, come non dubito che fosse, una partita venduta in meno sarebbe stata, da parte di tutti i suoi colleghi, risposta mille volte più adeguata di cento partite non giocate.

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