Cultura

“Processo all’italiana”: l’analisi di Davigo e Sisti sulla giustizia nel Belpaese

Il libro sarà presentato dai due autori insieme al magistrato Armando Spataro e Piero Colaprico, inviato di "Repubblica", mercoledì 18 aprile alle 18 presso la libreria Feltrinelli di piazza Duomo a Milano

di RQuotidiano

E’ in libreria dal 5 aprile “Processo all’italiana” (Laterza editore), scritto dal giudice di Cassazione Piercamillo Davigo, già pm di Mani pulite, e dal giornalista Leo Sisti. Il libro è per una parte “ricognizione” dei mali del processo, dall’altra vero e proprio pamphlet di denuncia e sarà presentato dai due autori insieme al magistrato Armando Spataro e Piero Colaprico, inviato di “Repubblica”, mercoledì 18 aprile alle 18 presso la libreria Feltrinelli di piazza Duomo a Milano.

L’analisi proposta nel volume delinea un quadro del sistema giustizia in grave difficoltà. Alla data del 30 giugno 2011, infatti, la massa dell’arretrato nei tribunali italiani era pari quasi a 9 milioni di processi. I tempi medi necessari per la definizione di una causa sono arrivati a più di 7 anni nel civile e a quasi 5 anni nel penale. I nostri processi sono elefantiaci e la magistratura si scontra con procedure che richiedono anni. Nella classifica della Banca Mondiale l’Italia è al 158° posto, su 183, per la durata dei procedimenti e per l’inefficienza della giustizia: un dato sconcertante, che ci vede preceduti persino da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo. E che porta via l’un per cento del pil, secondo un’analisi della Banca d’Italia.

“Processo all’italiana” spiega come funziona la giustizia in Italia e cosa vogliono dire parole chiave come patteggiamento, rito abbreviato, udienza preliminare, depenalizzazione, prescrizione. Ma, soprattutto, propone una cura a costo zero per uscire dai gironi infernali dei tribunali italiani. Bastano poche misure, anche banali, per ovviare a rinvii continui ed esasperanti; per eliminare montagne di carte; per rivedere il patteggiamento e il rito abbreviato, i due riti alternativi che non hanno dato i risultati attesi; per consentire gli appelli solo dopo una loro selezione; per rendere effettive le depenalizzazioni, mai adeguatamente realizzate; per mettere la parola fine all’interminabile polemica sulle intercettazioni.

Piercamillo Davigo è consigliere della Corte Suprema di Cassazione, in servizio alla Seconda Sezione penale dal 2005. Entrato in Magistratura nel 1978, è stato assegnato al Tribunale di Vigevano con funzioni di giudice, poi dal 1981 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano con funzioni di sostituto procuratore. Dal 1992 ha fatto parte del pool Mani Pulite, trattando procedimenti relativi a reati di corruzione e concussione ascritti a politici, funzionari e imprenditori. Dal dicembre del 2000 è stato consigliere della Corte d’Appello di Milano. Per Laterza ha pubblicato “La giubba del re. Intervista sulla corruzione” (con D. Pinardi, nuova edizione 2004) e “La corruzione in Italia”. Percezione sociale e controllo penale (con G. Mannozzi, 20084).

Leo Sisti, giornalista, già inviato speciale de “L’Espresso”, è collaboratore dello stesso settimanale, del “Venerdì” di “Repubblica” e del “Fatto Quotidiano”. Ha vinto quattro premi giornalistici: uno in Italia, nel 1996, “Il Premiolino”, per aver rivelato su “L’Espresso” che All Iberian, una società usata come veicolo di tangenti finite anche all’ex premier Bettino Craxi, era, nonostante le smentite, controllata dal gruppo Berlusconi; tre negli Stati Uniti, assegnati nel 2009, 2010 e 2011 da “Investigative Reporters and Editors” per alcune inchieste transnazionali realizzate con il network americano “The International Consortium of Investigative Journalists” (ICIJ), di cui è membro dal 2000. Ha scritto “Il Banco paga” (con G.Modolo, Mondadori 1982), “La morte del Maestro” (con L.Coen, Mondadori 1987), “Il caso Marcinkus” (con L. Coen, Mondadori 1991), “Les Nouveaux Reseaux de la Corruption” (con Fabrizio Calvi, Albin Michel 1994), “L’Intoccabile. Berlusconi e Cosa Nostra” (con P. Gomez, Kaos 1997), “Piedi puliti” (con L. Coen e P. Gomez, Garzanti 1998), “Caccia a Bin Laden” (BaldiniCastoldiDalai, 2004), “L’isola del tesoro. Ciancimino e Provenzano” (Rizzoli, 2007).

Pubblichiamo di seguito un estratto del libro tratto dal capitolo “Depenalizzazioni sì o no”

Tagli sbagliati – Disboscare. Tagliare. Tranciare. Da anni si discute di eliminare dal codice penale vari tipi di reati. Alcuni, superati dal decorso del tempo. Altri, pericolosi per il potere. Scrive il giurista Franco Cordero, con sottile provocazione: «Tanta materia penalmente futile sarebbe meglio regolabile in sedi diverse se i legislatori avessero talento inventivo». Il riferimento è alle tante leggi ad personam studiate ed elaborate per l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi negli anni in cui è stato a Palazzo Chigi, dal 2001 al 2006, e dal 2008 al 2011. Su tutte, quella della sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio, un reato “lesivo dell’economia pubblica”, ridotto, nella sua versione approvata nel 2002, a un reato di poco conto perché è stata depotenziata la sua originaria funzione.

L’ex procuratore aggiunto di Torino, Bruno Tinti, ha marchiato con queste parole il contorno di certe “nuove” leggi: “In Italia il primo strumento di controllo della politica sulla magistratura consiste nella predisposizione di leggi depenalizzanti (di fatto) i reati tipici della classe politica, tra tutti il falso in bilancio, l’abuso d’ufficio e il finanziamento illecito dei partiti; e ciò con gli strumenti di una fattispecie autoabrogante talmente rapida da non consentire comunque di arrivare a una sentenza definitiva”. Nella serie depenalizzazioni non “futili”, ma in concreto sbagliate, rientra quella della emissione degli assegni a vuoto. Dalla padella nella brace, si potrebbe commentare. Perché il panorama giudiziario è stato stravolto con un effetto a catena non previsto: sono aumentati, e di molto, i processi per truffa. Chi riceve uno di quei titoli presenta una querela-tipo su questa base: “Chi me l’ha dato mi ha assicurato che era coperto”. Ciò integra il “raggiro” richiesto dalla truffa.

Di qui tantissimi nuovi processi. Se si fosse voluto azzerare quel malcostume sarebbe stato sufficiente obbligare le banche a coprire l’assegno fino ad un certo importo. Così avrebbero smesso di rilasciare libretti a chi poteva abusarne. Del resto, proprio loro hanno inventato la carta assegni che garantisce la loro copertura. Un paragone soccorrerà. Se una persona entra in un negozio e acquista prodotti, per esempio, con una carta di credito, e poi non paga, chi ci rimette non è il negoziante bensì la società che l’ha emessa. Perché il rapporto contrattuale è tra il cliente e la società stessa. Domanda: perché questo meccanismo non dovrebbe essere applicato anche agli istituti di credito? È una forma di colpa che viene tirata in ballo. Soltanto in questo modo si potrebbe contribuire a “contenere” il fenomeno, invece di scaricarlo sugli apparati pubblici. Del resto quando devono concedere fidi, come si regolano le banche se non conducendo delle indagini sulle persone che li richiedono? Spostiamo i riflettori sui libretti di assegni e proviamo a considerarli veri e propri fidi. Un carnet, un fido.

Il legislatore fissi un tetto: ogni assegno fino a 500 euro deve essere sicuro “a buon fine”. Benissimo. Gli istituti creditizi sanno che se consegnano un blocchetto da 10 pezzi sono vincolati a garantirne la copertura fino a 5 mila euro, come se fosse l’equivalente di un fido. I loro clienti non sono affidabili? Addio libretto! Il padre della moderna economia politica, Adam Smith, ha enunciato un principio che in Italia non viene mai ricordato a sufficienza: non è dalla bontà del fornaio o del macellaio che dobbiamo attenderci la nostra cena, ma dalla loro considerazione per il proprio interesse. Il fornaio non ci dà il pane perché è buono, ma perché noi glielo paghiamo e lui, vendendocelo, ci guadagna. In altre parole bisogna sforzarsi perché sia vantaggioso fare certe cose e svantaggioso, invece, farne altre. Questo è lo schema che vale per tutti, assegni a vuoto o altro. Vale all’interno, come all’esterno del processo. Con un unico obiettivo: impedire che si produca un contenzioso ingente, spaventoso, sia in sede civile sia in sede penale.

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