Nel nostro immaginario collettivo e nelle storie di molte nostre famiglie, il viaggio in cerca di opportunità di lavoro è stato sinonimo di sacrificio forzato, di affetti spezzati, di scelta disperata.
Ciò ha riguardato in passato – ma continua per una rilevante parte anche oggi specie al Sud – l’emigrazione del capitale umano ‘unskilled’, non specializzato, forza lavoro aperta a ogni mansione e a ogni esperienza.
Quella stessa generazione che è cresciuta con il dramma dell’“emigrazione involontaria” ha voluto che i propri figli sviluppassero un capitale umano più sofisticato, capace di determinare il proprio destino. Capace di scegliere.
Negli anni ottanta e novanta il mantra è stato: laurearsi, fare il mitico ‘master’, imparare almeno due lingue, fare esperienza all’estero. Quando mi sono laureato, la scelta di trascorrere periodi all’estero di studio o d lavoro non era affatto necessitata, ma era da molti di noi ritenuta necessaria per ‘creare il curriculum’.
Nessun cervello in fuga dunque, ma ricerca di formazione, di esperienza e di opportunità non sempre disponibili in Italia.
Pensare che l’esperienza estera di un giovane sia un ‘cervello in fuga’ nel mondo globalizzato è un equivoco retorico nel quale purtroppo sembrano esser caduti anche alcuni ministri del presente governo, con alcune recenti dichiarazioni. L’idea che un giovane lasci l’Italia è considerata, di per sé, una sconfitta. Un pericolo da contrastare. E perché mai?
La sconfitta non può risiedere nella ‘fuga’ in quanto tale, ma semmai nel fatto che quella fuga non sia quasi mai sostenuta da borse di studio, da prestiti d’onore, da reti di assistenza e di opportunità.
La vera sconfitta è da un lato nella solitudine del giovane che costruisce le sue opportunità di formazione estera e nella diseguaglianza di opportunità tra le famiglie ricche e quelle meno abbienti; dall’altro nella incapacità di far rientrare i cervelli una volta che hanno acquisito elevate specializzazioni utili al paese.
C’è poi un’insopportabile retorica strisciante che sarebbe il caso di iniziare a combattere: non tutte le fughe hanno un cervello e non tutti i cervelli sono in fuga. Per dirla con il film, fuggono anche le galline!
Sembra quasi che se non fuggi non sei un cervello. E invece ce ne sono tanti che non sono fuggiti e che sarebbe il caso di iniziare a cercare. Di sostenere. Sarebbe il caso di parlarne, quanto meno.
Abbiamo un sacco di limiti in Italia, è vero. Ma una parte significativa e crescente del capitale umano che lavora nella ricerca, nelle istituzioni e persino nelle imprese italiane è fatto di cervelli che non sono ‘fuggiti’. Che sono ‘sopravvissuti’ qui, che si sono formati in Italia e all’estero tra mille difficoltà. Che riescono a competere – con pochissime risorse e senza reti relazionali comparabili – con i colleghi di altri paesi, mantenendo risultati medio-alti e in alcuni casi eccellenti.
Ma siccome non sono ‘in fuga’, nessuno se ne preoccupa, nessuno ne valorizza il contributo. Abbiamo qui, dietro l’angolo, un giovane che ha pubblicato su una rivista internazionale di assoluto prestigio, con laurea e dottorato italiani, ma ci piace molto di più il collegamento televisivo con un coetaneo che sta in qualche università dal nome straniero e che da laggiù ci spieghi quanto siamo sfigati.
Dobbiamo pensare ai cervelli e non alle fughe. Valorizzare le esperienze di formazione italiane integrandole con quelle estere. Incoraggiare a far partire e a far rientrare i nostri giovani (e anche i meno giovani), magari offrendo doppi percorsi, in Italia e all’estero. Ma valorizziamo anche i tanti cervelli che abbiamo qui. Fuggiamo piuttosto dalla facile retorica. E dal nostro compiaciuto provincialismo (vera fuga ‘dal’ cervello).
Aggiornamento del 18 Aprile 2012, 14.16 – Ricevo e pubblico da parte di Alessia Mosca e Guglielmo Vaccaro, entrambi deputati del Partito Democratico, il seguente intervento a commento di questo post. Sarò lieto di ospitare altri commenti sul tema qui. (AN)
Gent.mo Prof. Nicita,
abbiamo seguito con partecipazione tutta la questione dei “cervelli in fuga” protagonista a vario titolo dell’attualità degli ultimi giorni e il suo articolo in particolar modo offre spunti di discussione interessanti.
Parliamo con cognizione di causa, forti della nostra esperienza concreta sull’argomento cominciata, nel nostro piccolo, più di quattro anni fa con l’ideazione e lo sviluppo del progetto “Controesodo”, progenitore ideale di quella legge n. 238/2010 con la quale, grazie a un lavoro bipartisan, abbiamo istituito incentivi importanti per favorire il rientro dei talenti in Italia. Lo spirito di quell’iniziativa, tutt’altro che conclusa e alla quale lavoriamo ancora con convinzione, non era certamente quello del “nazionalismo intellettuale”, della volontà di tenere i “cervelli” italiani segregati all’interno dei confini. Tutt’altro.
A spingerci era la sincera convinzione che la mobilità “sana” (quella, cioè, non obbligata dalle contingenze economiche e/o occupazionali ma cercata in maniera volontaria) sarà la vera sfida delle prossime generazioni e
proprio rispetto alla capacità di attirare talenti – ma anche supportare la loro circolazione altrove, lasciando loro aperta la porta nel Paese d’origine – si giocherà la partita della crescita e dello sviluppo nei prossimi anni. Siamo pienamente d’accordo con lei, dunque: l’idea che un giovane brillante possa lasciare l’Italia non è “un pericolo da contrastare”. E’ sicuramente un pericolo, invece, ed è nostra intenzione contrastarlo con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, il fatto che quei giovani che sono andati via l’abbiano fatto perché qua non veniva dato loro ascolto, né la possibilità di dimostrare il loro valore. E’ un pericolo da contrastare il fatto che, ad oggi, non abbiano un buon motivo per tornare, come ha giustamente sottolineato lei.
Ieri alcuni giornali hanno ripreso una dichiarazione del Ministro Barca riguardo la necessità, per i giovani, di andare altrove a mettere a frutto le loro professionalità, finché l’Italia non diventa “un posto migliore”. Noi abbiamo risposto al Ministro che solo con le menti, con le persone migliori, si potrà realizzare un’Italia migliore: questo significa che dobbiamo tornare competitivi, essere un polo d’attrazione non solo per i giovani italiani che hanno imparato all’estero ma anche per le migliori menti straniere che potranno dare un contributo enorme alla crescita del nostro Paese.
Come ha correttamente sottolineato lei, il nostro compito non è eliminare il fenomeno dei “cervelli in fuga” ma trasformarlo in quello dei “cervelli in movimento”».