Secondo Bloomberg, dal 2010 ad oggi le banche tedesche e francesi hanno ridotto la presenza nei loro portafogli di titoli italiani, spagnoli, greci e irlandesi anche del 50%. E sono proprio le banche delle nazioni "di serie B" a fare incetta di bond. In pratica, la liquidità messa in circolo dalla Banca centrale europea è finita in periferia. E potrebbe non bastare
Può sembrare complicato, ma in realtà è più semplice di quanto non appaia. Partiamo dalle cifre. Dal 2010 ad oggi, sostiene Bloomberg, le banche tedesche e francesi hanno ridotto la presenza nei loro portafogli di titoli di Stato italiani, spagnoli, greci e irlandesi anche del 50%. In pratica, insomma, hanno deciso di smettere di finanziare i debiti delle periferie europee giudicandole troppo rischiose. Questa scelta ha ridotto l’impatto di eventuali default tecnici chiamando in causa la Bce, che da un paio di anni a questa parte si è assunta l’onere di finanziare questi stessi Paesi acquistando le loro emissioni (una strategia che ha anche lo scopo di frenarne la crescita dei rendimenti e quindi dei costi di finanziamento). Fin qui niente di nuovo. Eppure c’è un aspetto che in pochi sembrano aver considerato.
Nel corso degli ultimi mesi, alla fuga degli investitori di “Serie A”, si è accompagnata la spasmodica corsa ai bond da parte delle banche delle nazioni di “Serie B”: quelle degli stessi Paesi periferici. Di nuovo le cifre: dei 1.019 miliardi di euro prestati dalla Bce alle banche continentali nello spazio di tre mesi, 715 sono finiti nelle casse degli istituti di Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna. In pratica, oltre il 70% della liquidità low cost messa in circolo dalla Bce (ad un tasso dell’1%) è finita in mano alle banche di periferia. Tra dicembre e febbraio, i bond nazionali irlandesi in mano alle banche di Dublino sono aumentati del 21%, quelli portoghesi nelle casse degli istituti lusitani sono cresciuti del 15%. I titoli di Stato di casa propria in mano alle banche spagnole sono cresciuti del 26% tra dicembre e gennaio raggiungendo una cifra complessiva di 220 miliardi di euro contro i 267 miliardi di titoli nazionali in mano alle banche italiane (+31% da dicembre a febbraio). Nel secondo e terzo trimestre del 2011 le banche tedesche hanno ceduto il 13% dei titoli italiani in loro possesso, gli istituti francesi ne hanno venduto il 25%.
Il sistema, come sappiamo, sembrava funzionare, ma oggi è entrato in crisi: gli acquisti rallentano e i timori sul fronte debito pubblico/recessione fanno aumentare i rendimenti dei titoli svalutandoli nel prezzo di mercato. Un evento che produce almeno un paio di conseguenze. La prima potremmo definirla come “contagio interno”. Investendo i soldi della Bce nei titoli di Stato, le banche periferiche hanno legato ancora di più i propri destini a quelli dei conti pubblici dei loro governi. Se i governi dovessero fronteggiare un default tecnico, i piani finirebbero necessariamente per coinvolgere anche i loro sistemi bancari. Il secondo effetto è costituito dal coinvolgimento forzato della Bce. Se le banche private dei Paesi più forti si rifiutano di concedere credito, ecco che il compito di sostenere le finanze nazionali delle periferie passa necessariamente nelle mani di Eurotower. In altre parole, il rischio legato alla crisi europea passa implicitamente dalle banche di Berlino e Parigi alle tasche dei contribuenti continentali (cittadini francesi e tedeschi compresi).
Gira e rigira, insomma, la Bce si trova ora in trappola. Di fronte alla sfiducia dei grandi istituti dell’Europa a tripla A (o quasi, nel caso della Francia), la banca si troverà costretta a intervenire nuovamente. O riprendendo ad acquistare titoli sul mercato secondario, oppure, come suggeriscono alcuni rumors circolati di recente, avviando una nuova iniezione di liquidità alle banche stesse con prestiti a scadenza differita (non più a tre ma magari a cinque anni). Ammesso, è ovvio, che non si trovi costretta a perseguire entrambe le strategie.