Ammetto che mi è venuta a noia. Ogni qualvolta mi capita di sentire l’espressione scrittore migrante, so che si tratta di un autore che non leggerò, anche a costo di precludermi epifanie letterarie difficilmente reperibili in un altrove locale. Eppure sono talmente affascinato da questa torma di atomisti girovaghi, transumanti, questi sciamani pulviscolari con i loro alfabeti da ventinove lettere, da trentasei, da quarantotto, da non poter farne a meno. Lettere, a dire di Lucrezio, in perpetuo movimento, con le loro permutazioni combinatorie, la loro ricerca di levità da contrapporre al peso di un’esistenza che cerca, che cercherà di schiantarli a terra, viaggio natural durante.
Si sa che lo scrivere appare, agli occhi degli sprovveduti, come la più abbordabile delle attività umane. Quella chimica elementare tra i cui rudimenti abbiamo imparato a barcamenarci da piccoli, qualche volta perfino con successo, attestato a divinis dai lucciconi della nonna o dall’epica resa orizzontale della fidanzatina di turno. Scrivono calciatori, modelle, comici, poliziotti, cameriere, prostitute, politicanti e anime pie; perfino i cani scrivono, e anche i porci, per interposta persona. In pochi si danno alla pittura, al canto, alla musica, al balletto, alla scultura. Per qualche strano motivo, queste diverse branche dell’arte (della follia), appaiono poco agevoli e di faticosa attuazione. In qualsiasi latitudine, sotto qualsiasi cielo.
Ma cosa vuol dire, davvero, fare lo scrittore?
Uno dei miei nonni, che non scrisse mai una storia in vita sua, ma che le sapeva raccontare come nessuno, era solito dire che dal sedere di una persona si riescono a capire molte più cose di quanto essa sia disposta a dirci. Basta saperlo guardare. Ci sono culi allegri e culi tristi. Ce ne sono di conformisti e di destabilizzanti. Di inquieti e di sedentari, diceva.
Dai tempi del liceo mi è rimasta in testa quell’Allegoria della caverna che il buon Platone (settimo libro della Politeia, se la memoria non mi inganna) ci inflisse a tradimento, e sulla quale credo non ci siamo mai soffermati a sufficienza. La comunità umana rappresentata da un gruppo di cavernicoli (presumibilmente seduti) che fissano un muro sul quale si riflettono delle immagini. La luce è alle loro spalle, proviene da quel mondo che comincia proprio sull’uscio della grotta, ma loro sembrano non rendersene conto. La realtà (la loro realtà) è costituita da quella catena di ombre che si staglia sulla parete, che aggioga tutti quanti nella più retriva percezione della propria esistenza. Finché uno di loro non si alza e decide di uscire fuori. Di resistere alla luce abbagliante del sole, di sporcarsi le mani, toccando ciò che gli altri non si sono mai sognati di concepire. Poi torna dentro, prova a raccontare ai suoi simili quanto ha visto, quanto gli è sembrato di capire, quanto c’è da scoprire uscendo da quella porta. Ma viene preso per un sovversivo. Un folle pericoloso, con delle idee balzane, nocivo a una comunità che si riconosce nella pacata scansione di un tempo comune, rassicurante, immutabile, sempre uguale a se stesso. E il folle viene costretto ad allontanarsi. A girovagare senza sosta, riempiendosi gli occhi di storie, di portenti, di malefatte, di gioie, di dolori che poi cercherà di raccontare agli altri, in altre caverne che troverà al suo passaggio, da dove sarà spesso cacciato, condannato a proseguire il viaggio.
Ecco lo scrittore, a mio modesto parere – qualsiasi scrittore – alle prese con la sua propria condizione di scrittore. Destabilizzante, nomade, curioso, inquieto, infaticabile. Migrante. Il Filottette ferito da cui tutti rifuggono, ma del quale, prima o poi, non potranno fare a meno.
Per questo mi è venuta a noia quell’espressione (torno all’inizio). Perché definirsi scrittori migranti, o permettere ad altri di farlo, oltre che pleonastico è una delle tante forme della vigliaccheria. Nostra e altrui. L’elementare necessità di una branca (una grotta, un recinto) nella quale cercare riparo alle inclemenze dell’incomprensione. Un posticino al sicuro dove trovare una mano sulla testa, una pacca sulla spalla, un complimento più o meno sincero.
Perché non esiste uno scrittore che non sia anche un migrante. Che non si sia librato in volo nel momento stesso in cui decise di prendere una penna e di tradurre il vissuto, proprio o altrui, nella lingua che in quel preciso istante gli era congeniale, e che questo racconto dovesse arrivare ad altri. Quel cambio di velocità nel sistema universale, quell’istante che si pretende far diventare eterno, quel “batter d’occhio” che attanagliava De Quincey, “un pensiero, un’ala d’angelo: che cosa era abbastanza veloce per inserirsi nello spazio tra la domanda e la risposta, separando l’una dall’altra?” Quell’invenzione stupenda del linguaggio scritto, in grado di farci dialogare con l’umanità intera, come chiosava Galileo, “con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta”.
Ho detto prima che non leggerò più uno scrittore che accetti di essere definito Migrante. Lo ribadisco. Non per cattiveria, è soltanto mancanza di tempo. Tempo che si porta via la lettura di tutti quelli scrittori italiani che ancora non ho letto, e che adoro. Scrittori italiani nati in Senegal, in Palestina, a Sofia, In Burkina Faso, in Adelaide, nella Tierra del Fuego, nelle foreste tropicali… con i loro cognomi zeppi di consonanti, gli aromi che restano attaccati alla pelle, le loro modulazioni, la particolare scansione di una lingua – la nostra – che solleva la testa, incuriosita, per farsi conquistare, una volta ancora, invaghita da voci che continuano a sussurrarle all’orecchio parole mille volte sentite e mai come ora nuove. Quei poeti dalla lunga gittata, inquieti, infaticabili, coloro che hanno intinto gli occhi in ogni singolo ruscello dell’universo, portatori sani di città invisibili, di paesi, di universi inesistenti.
Per il resto, parlando di letteratura, o della vita – che dovrebbe essere pressappoco la stessa cosa – seguo il consiglio di mio nonno. Quando mi capita un libro tra le mani, di un qualsiasi scrittore, per prima cosa gli guardo il sedere. Ce ne sono di culi medi, grossi e perfino imbarazzanti. Quelli di coloro che non riescono ad alzarsi in volo. Che non hanno una nazionalità precisa, perché nascono dappertutto. Che non vanno da nessuna parte. Forse bisognerebbe creare per loro una definizione nuova di zecca, un apposito scaffale, dove trovarli subito, dove scansarli in fretta. E anche una definizione. Io proporrei Scribacchini Sedentari. Chissà se c’è qualche casa editrice disposta a farsene carico.
di Milton Fernandez