L'uomo, 70 anni, si è tolto la vita nella sua abitazione a Volvera, in provincia di Torino. Coinvolto nelle operazioni Crimine e Minotauro contro le infiltrazioni della criminalità organizzata in Piemonte, aveva ottenuto di poter uscire dal carcere perché depresso e affetto da un principio di Parkinson
È uscito a prendere aria sul balcone della casa in cui scontava gli arresti domiciliari e si è buttato. Intorno alle 16 di oggi Giuseppe Catalano, ritenuto uno dei boss della ‘ndrangheta in Piemonte, capo del “crimine” a Torino, ha deciso di farla finita. Era nell’appartamento della figlia al primo piano di una palazzina di Volvera, un Comune del torinese, ed era uscito a prendere una boccata d’aria. Ha spostato alcuni vasi e si è buttato dal terrazzo. Trasportato d’urgenza al pronto soccorso di Orbassano, Catalano, nato a Siderno nel 1942, è morto poco dopo in ospedale. Soffriva di depressione e aveva un principio di Parkinson.
Il boss aveva da poco ottenuto una misura di custodia cautelare più leggera dopo un anno e dieci mesi trascorsi nel carcere di Monza. Era finito in prigione il 13 luglio 2010 per l’operazione “Crimine” della Procura di Reggio Calabria e da allora era uscito di rado, soprattutto per le udienze al tribunale di Torino, dove era imputato. Aveva assistito alle udienze su una sedia a rotelle nella cella insieme agli altri imputati: Giovanni Catalano, Carmelo Cataldo e Rocco Zangrà. Per gli inquirenti reggini “l’anziano boss” è il capo della locale di Siderno a Torino che appoggiava la riapertura di una nuova locale a Rivoli dopo l’arresto dei suoi capi, i fratelli Crea: “Ci sono quaranta cristiani che possono stare per i fatti loro?”, chiedeva a un interlocutore in una conversazione intercettata. I suoi referenti in Calabria, i Commisso, lo avevano invitato a desistere perché si sarebbe messo molte persone contro, tra cui il clan Pelle. Dalle intercettazioni risulta anche che Catalano volesse aprire una camera di controllo a Torino: “Questo fatto della camera di controllo che hanno sia la Lombardia che il Piemonte, perché a Torino non gli spetta? Che ce l’hanno la Lombardia e la Liguria, giusto? Siamo nove locali”, aveva detto a Giuseppe Commisso in un’altra conversazione.
Poi, nel giugno scorso, è stato raggiunto in carcere da una nuova ordinanza, quella per l’indagine “Minotauro” della procura di Torino sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte: Giuseppe Catalano era il proprietario del Bar Italia in cui erano stati organizzati degli incontri con dei politici durante la campagna elettorale della primavera del 2009: Claudia Porchietto, del Pdl, candidata alla presidenza della Provincia, e Fabrizio Bertot (Pdl), candidato al Parlamento europeo. In questo bar di via Veglia inoltre venivano fatti i rituali di affiliazione e venivano assegnate le cariche agli appartenenti dell’organizzazione. Molte di queste si erano svolte in quel bar proprio quattro anni fa, il 19 aprile 2008. Per gli inquirenti torinesi lui era anche un “padrino” e coordinava il “crimine”, l’organismo provinciale della ‘ndrangheta a Torino. L’accusa per lui, oltre all’associazione a delinquere di stampo mafioso, è di voto di scambio. Accuse tutte respinte dal suo avvocato, Carlo Romeo, che si è battuto per fare ottenere al suo assistito una custodia più adatta al suo stato di salute.
Circa una settimana fa il giudice Maria Iannibelli aveva disposto per lui gli arresti domiciliari. La nuova ordinanza di custodia cautelare era motivata sulla base di tre elementi: i settant’anni d’età di Catalano, le gravi condizioni di salute e la sua recente dissociazione dalla ‘ndrangheta. In una delle ultime udienze del processo “Crimine” a Torino ha riconosciuto di far parte dell’organizzazione, ma ha anche cercato di ridurne le dimensioni: “Ne ho fatto parte, ma non avevo armi e non ho commesso delitti”. Era una sorta di gruppo di persone con le stesse origini. Per il suo avvocato, Catalano non era implicato in fatti di sangue, estorsioni o intimidazioni, e l’accusa di aver aiutato alcuni politici a ottenere voti era poco fondata.
Non è l’unico dei “boss” della ‘ndrangheta in Piemonte ad aver preso le distanze dall’organizzazione. Di recente anche Bruno Pronestì, 63 anni, ritenuto a capo del sodalizio installato nel Basso Piemonte tra Alessandria e Cuneo, aveva ammesso di essere un membro della ‘ndrangheta, dichiarando però: “Io con il mio passato non c’entro più niente”.