La riforma del lavoro in Italia dovrebbe rispondere anche al desiderio delle imprese di limitare la dimensione giudiziaria del contenzioso sul lavoro. Negli Stati Uniti molte aziende risolvono la questione stabilendo già al momento dell’assunzione che in caso di controversie il lavoratore ricorrerà all’arbitrato e non al giudice. Una soluzione che comporta alcuni benefici, come mostra uno studio sull’esperienza di una grande società. E, pur con le cautele del caso, suggerisce una riflessione più ampia sulla regolamentazione dell’arbitrato nel nostro diritto del lavoro.
di Nicola Persico* (lavoce.info)
La riforma del lavoro è un tema scottante, particolarmente in questi giorni. In Italia la riforma vuole rispondere, in parte, a un desiderio delle imprese di ridimensionare la dimensione giudiziaria del contenzioso sul lavoro. Lo stesso desiderio è sentito anche negli Stati Uniti. Molte aziende americane evitano il percorso giudiziale in materia di controversie di lavoro stipulando già al momento dell’assunzione il ricorso all’arbitrato. In questi casi, il contratto di assunzione richiede al lavoratore di abbandonare preventivamente il diritto di ricorrere al giudice e, in caso di controversie, di accettare il risultato arbitrale.
Un caso americano
Il ricorso all’arbitrato ha almeno due vantaggi. Primo, è veloce. Secondo, evita di gravare sulle già magre risorse della giustizia italiana. L’uso dell’arbitrato pone però interrogativi riguardo alla protezione garantita ai lavoratori: sarà altrettanto forte di quella offerta dal ricorso al giudice? Un interessante articolo scientifico risponde proprio a questa domanda. (1)
L’articolo studia l’effetto dell’introduzione di un arbitrato vincolante in materia di lavoro all’interno di una grande società americana. L’azienda in questione (più di 100mila dipendenti ripartiti in oltre mille luoghi di lavoro) ha introdotto nel 2004 un sistema di ricorsi in varie fasi. Quando un dipendente ha una lagnanza, per prima cosa deve riportarla al diretto superiore. Se questi non riesce a risolverla, il dipendente si può rivolgere all’ufficio del personale. Se anche questo ricorso fallisce, il dipendente si può rivolgere all’arbitro (e mai, si noti, al giudice).
L’azienda ha collezionato dati (risposte a questionari) che permettono di misurare l’effetto dell’introduzione della procedura arbitrale sull’atmosfera nel posto di lavoro: ogni anno chiede infatti a un campione di dipendenti di rispondere a domande di vario tipo. Per esempio: “Il mio superiore tratta tutti i dipendenti allo stesso modo senza riguardo a differenze di razza, sesso, o età”. Domande come questa riflettono la percezione di rispetto delle norme (in questo caso norme anti discriminazione) sul posto di lavoro. Oppure “Se ho un problema, mi sento libero/a di chiedere aiuto al mio superiore”. Domande come questa ci informano della percezione di giustizia interattiva, o informale, sul posto di lavoro. Oppure ancora “Ritengo che questa compagnia sia dedita a risolvere velocemente e imparzialmente problemi o preoccupazioni dei lavoratori”. Domande come questa riflettono la percezione di giustizia procedurale formale sul lavoro.
Lo studio analizza come le risposte a queste domande cambiano dopo l’introduzione dell’arbitrato vincolante. Si stima che la percezione di giustizia procedurale formale diminuisce. (2) Ciò suggerisce che i lavoratori percepiscano una minore dedizione dell’azienda, intesa come entità centrale, alla risoluzione soddisfacente delle dispute. Allo stesso tempo, però, cresce la percezione di rispetto delle norme e anche la percezione di giustizia interattiva/informale. (3) Ciò suggerisce che i lavoratori percepiscano un miglioramento del clima sul posto di lavoro, a livello di singolo luogo di impiego, e una maggiore fiducia nei confronti dei superiori, dopo l’introduzione dell’arbitrato obbligatorio.
A questo punto, sono doverosi alcuni caveat. Primo, ai nuovi dipendenti – i soli che sono soggetti all’arbitrato obbligatorio – sono stati anche mostrati dei video che descrivono il processo di risoluzione delle lagnanze descritto sopra. È difficile scontare l’effetto che questi video possono avere sulla percezione dei lavoratori. Secondo, stiamo parlando di percezioni, non di realtà. Infine, vi sono certi piccoli dubbi sull’identificazione statistica dell’effetto. A me sembrano piccoli abbastanza da non inficiare il valore dell’analisi; ma questa è un’opinione informata, non un fatto, e rimando il lettore interessato all’articolo originale.
Riflessioni italiane
Generalizzare al caso italiano è naturalmente difficile, per molte ragioni. Tuttavia, ritengo sia utile portare all’attenzione dei lettori italiani un esempio in cui i lavoratori nuovi assunti sono indirizzati verso un sistema di risoluzione extra-giudiziale del contenzioso sul lavoro. Nel caso dell’azienda americana oggetto di studio (la cui identità è tenuta riservata), questo mutamento non sembra avere dato luogo a effetti disastrosi.
In Italia il ricorso all’arbitrato è stato di recente nuovamente disciplinato dal Collegato lavoro, con la riforma degli articoli 412 e seguenti del codice procedura civile. La normativa attuale, da ciò che capisco, non consente la rinuncia preventiva al ricorso giurisdizionale. E dunque in Italia, anche volendo, non si potrebbe per legge replicare l’esperienza della azienda americana. (4)
La ragione per cui il legislatore non ha voluto consentire la rinuncia preventiva sembra sia la preoccupazione che il lavoratore possa essere in una posizione “debole” nei confronti del datore di lavoro al momento della firma del contratto. E quindi, il divieto di rinuncia preventiva è visto come una protezione per il lavoratore. A un economista teorico questa giustificazione può sembrare incompleta. Se il lavoratore è in posizione debole, la legge può ben riuscire a regolamentare la forma del contratto in alcune dimensioni, ma difficilmente in tutte. Così, per esempio, la legge può vietare la rinuncia preventiva al ricorso giurisdizionale, ma non può evitare che l’azienda reagisca abbassando il salario. Se così fosse, la regolamentazione del contratto avrebbe un doppio effetto: il lavoratore sarebbe più protetto, ma sarebbe pagato di meno. L’effetto netto sul benessere finale del lavoratore potrebbe essere minimo.
Naturalmente, si tratta di una considerazione meramente teorica. Non so assegnare stime quantitative agli “effetti di sostituzione” nei contratti di lavoro, e quindi certo non posso concludere che l’effetto sul benessere del lavoratore sia necessariamente piccolo. Questa è, come dicono gli economisti, una questione empirica. D’altro canto, va considerato il fatto che il semplice effetto di scoraggiare il ricorso all’arbitrato ha anch’esso un probabile effetto, probabilmente inefficiente e sicuramente tendente a congestionare i tribunali. Questi effetti negativi della normativa vigente, assieme alla considerazione teorica che suggerisce che i suoi benefici possano essere piccoli, e in ultimo l’esperienza della azienda americana sopracitata, sono elementi che suggeriscono la necessità di approfondire la riflessione sulla regolamentazione dell’arbitrato nel diritto del lavoro.
(1) Eigen, Zev J. e Litwin, Adam Seth, “A Bicephalous Model of Procedural Justice and Workplace Dispute Resolution” (January 1, 2012). Northwestern Law & Econ Research Paper No. 11-21. Disponibile a:http://ssrn.com/abstract=1884421
(2) Di mezza deviazione standard. Si veda la tabella 4 nell’articolo sopra citato.
(3) Di una e di mezza deviazione standard, rispettivamente.
(4) Ringrazio, senza minimamente implicare nelle conclusioni di questo articolo, Margherita Leone del Tribunale del Lavoro di Roma e Amelia Torrice della Corte d’Appello di Roma, sezione Lavoro, per molte preziose conversazioni riguardanti il contenzioso del lavoro e l’attuale assetto legislativo in materia.
*Nicola Persico ha ottenuto il PhD in Economics alla Northwestern University. Ha insegnato alla University of California Los Angeles (UCLA), alla University of Pennsylvania, ed è attualmente Professor of Economics, e Professor of Law and Society, alla New York University.