Con Paolo Borsellino, essendo stato, il regista Ruggero Cappuccio e l’attore Claudio Di Palma ripercorrono i 57 giorni che separano la morte del magistrato dall’uccisione dell’amico e collega Giovanni Falcone. “Negli ultimi 20 anni in Italia c’è stata una controrivoluzione culturale irreversibile”
A 20 anni dalla strage mafiosa del 19 luglio 1992, che vide morire Borsellino e cinque uomini della scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina), la piece di teatro civile del regista campano prende le mosse per un viaggio a ritroso lungo i 57 giorni che lo separarono dalla morte del collega e amico Giovanni Falcone.
“Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare”. I 57 giorni in cui Paolo Borsellino vive dopo la morte a Giovanni Falcone, fanno del giudice sopravvissuto un uomo solo, accerchiato da elementi deviati dello Stato e della politica, da Cosa Nostra e dall’indifferenza collettiva come prodotto culturale raffinatissimo atto a seppellire la verità. Senza Falcone, senza l’uomo che Borsellino stesso definiva “il suo scudo”, il magistrato elabora la certezza matematica della propria fine.
A più riprese disegna come imminente la propria morte a colleghi ed amici con allusiva eleganza. Malgrado ciò rimane. Rimane in Sicilia, rimane a Palermo, rimane fedele a un’idea, a Falcone, a sé stesso. “All’inizio Cappuccio metteva in scena cinque donne, cinque Antigone che creavano un rapporto più classicamente tragico con la terra siciliana”, spiega il protagonista Di Palma, “poi è stata eliminata la matrice, lasciando solo Borsellino in scena. Alle sue spalle un magnifico dipinto di Mimmo Palladino dove è disegnato il percorso del dolore, la frantumazione di corpi, arti e teste”.
Solennità e semplicità sono le parole d’ordine nel ricostruire il personaggio in scena: “Nell’isolamento in cui è stato lasciato nei suoi ultimi giorni, il magistrato interloquisce con la scorta e poi agisce in questo rapporto con la madre, l’ultima visita vissuta nella solitudine e nella consapevolezza della morte imminente”, continua Di Palma, “il mio Borsellino non è costruito sulla documentazione spicciola, su un realismo evocativo: semmai l’attenzione è più sulla sostanza verbale della sua parola”.
Dal quartiere la Kalsa di Palermo dove nacque come Falcone, là dove ancora oggi per avere la luce gli abitanti si agganciano ai pali comunali, alla strage di stato di via D’Amelio: “Borsellino si è soffermato spesso sulla figura del faccendiere, del suo ruolo perverso e raccapricciante nel rapporto tra la società e la mafia. Oggi, a 20 anni di questo eroe moderno, i faccendieri sono diventati qualcosa in più, detentori di un maggiore potere politico ed economico. Un tempo avevano parti oscure, oggi hanno ruolo di potere. Per questo mi sembra di percepire che dalla morte di Borsellino ad oggi stiamo vivendo una controrivoluzione culturale dagli effetti negativi che temo sia un processo irreversibile”.
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